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F.S. e Amianto marzo 2022

Il giudice del Tribunale di Roma, Francesca Vincenzi, ha condannato Ferrovie dello Stato al risarcimento di 300 mila euro alla famiglia di un macchinista di Palermo morto nel 2015 di mesotelioma per esposizione alla fibra killer. L’uomo aveva lavorato nelle FS per 30 anni, dal 1967 al 1996, come macchinista, sempre esposto all’amianto senza dispositivi di protezione. Prima presso il deposito locomotive di Catania, poi in quello di Palermo e Caltanissetta. Per qualche mese fu addetto alla conduzione di treni in Sicilia. In ultimo, infine, nel deposito locomotive di San Lorenzo a Roma.

Nella sentenza il magistrato richiama l’onere, per il datore di lavoro, di provare a sua discolpa, “di aver adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto”. Il riferimento è alla Legge 257/1992 che mette al bando la fibra killer.  Spiega anche che la presenza di amianto nell’ambiente di lavoro dell’uomo emerge dai documenti presentati nel ricorso. La stessa Rfi l’ha confermata nelle sue memorie difensive. Il giudice sottolinea anche che non si tratta di “una piccola impresa che galleggia nel turbinio di leggi da cui trarre indicazioni comportamentali, ma di una grande realtà aziendale, ‘parallela’, per i servizi sanitari, allo Stato”. Dotata anche “di un organismo ad hoc, assistito da competenze scientifiche, deputate in primo luogo ad assicurare e garantire la salute dei ferrovieri” – e sottolinea che l’organizzazione sanitaria “si è dimostrata inadeguata e/o difettosa … nel rivelare e segnalare tempestivamente al vertice gestionale il serio e non ipotetico pericolo incombente costituito dalle fibre di amianto diffuse nel materiale rotabile, suggerendo rimedi che la comunità scientifica internazionale aveva ormai allo studio”.

Cassazione Civile, Sez. 3, 21 marzo 2022, n. 8999 – Domanda risarcitoria in relazione alla morte del coniuge caduto all’indietro da un trabattello mentre era intento nello smontaggio/montaggio delle condotte dell’aria condizionata

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Cassazione Civile, Sez. 3, 21 marzo 2022, n. 8999 – Domanda risarcitoria in relazione alla morte del coniuge caduto all’indietro da un trabattello mentre era intento nello smontaggio/montaggio delle condotte dell’aria condizionata



Presidente: FRASCA RAFFAELE GAETANO ANTONIO Relatore: GUIZZI STEFANO GIAIME
Data pubblicazione: 21/03/2022
 

Fatto
 



1. E.V. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 2830/18, del 4 dicembre 2018, della Corte di Appello di Firenze, che – nel decidere sul gravame dalla stessa esperito, in via di principalità, avverso la sentenza n. 1277/16, dell’11 giugno 2016, del Tribunale di Lucca, che ne aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta in relazione al decesso del coniuge G.G. – ha dichiarato il mezzo inammissibile, ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ.
2. In punto di fatto, la ricorrente riferisce che in data 24 agosto 2002 suo marito G.G., dipendente della società Same S.r.l., rimaneva vittima, perdendo la vita, di un infortunio sul lavoro presso il cantiere della società Kedrion S.p.a., in località Bolognana-Gallicano. Riferisce, altresì, che la vittima lavorava alle dipendenze della Same, in virtù di un contratto di collaborazione occasionale, trovandosi presso il cantiere della società committente a seguito di una catena di contratti di appalto e subappalto, che vedeva coinvolte, oltre alla società datrice di lavoro, pure le società Inso S.p.a. e F.C. S.r.l., nelle rispettive qualità di appaltatrice e subappaltatrice dell’opera. Deduce, inoltre, la E.V. che l’evento mortale si verificava a seguito della caduta del G.G. da un trabattello, posizionato ad un’altezza di circa quattro metri dal suolo, ove l’uomo stava procedendo allo smontaggio di condotte di aria condizionata.
Svoltosi processo penale innanzi al Tribunale di Lucca, per il reato di omicidio colposo contestato a carico di R.C., quale datore di lavoro e responsabile della predetta cooperativa Same, lo stesso si concludeva con la condanna dell’imputato alla pena della reclusione di otto mesi, nonché al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separato giudizio, con l’assegnazione di una provvisionale in favore della sola  E.V.. Il Tribunale penale rigettava, invece, le domande proposte nei confronti dei responsabili civili.
In forza dell’accertamento operato dal giudice penale, la E.V. – con citazione del 13 maggio 2010 – adiva il Tribunale di Lucca in sede civile, affinché fosse riconosciuta la responsabilità nella morte del proprio congiunto anche a carico della società F.C., della società in Inso, quale capogruppo mandataria dell’associazione temporanea d’impresa Inso-Steril, nonché della Kedrion, con condanna di tutte le convenute a risarcire, eventualmente anche in via solidale, il danno cagionato all’attrice.
Nel giudizio intervenivano, su chiamata di parte, anche le società Generali S.p.A. e Milano Assicurazioni S.p.a. (poi divenuta Unipolsai Assicurazioni), assicuratrici, rispettivamente, di Inso e F.C..
Il giudizio di primo grado si concludeva con il rigetto della domanda della E.V. (non essendosi ravvisata responsabilità in capo alle società convenute), il cui gravame – come detto – era dichiarato inammissibile dal giudice di appello.

3. Avverso la decisione della Corte fiorentina ricorre per cassazione la E.V., sulla base di due motivi.

3.1. Il primo motivo denunzia “violazione dell’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. in relazione all’erronea declaratoria di inammissibilità dell’appello pronunciata ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ.”.
La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma – nel qualificare come inammissibile, per difetto di specificità, il gravame esperito dalla E.V. – che l’allora appellante ebbe a svolgere “una esposizione generica in diritto tradottasi in una mera ricognizione normativa, senza menzionare e confrontarsi con nessuna parte della motivazione della sentenza”.
Assume, per contro, la ricorrente che il proprio atto di gravame, già nelle prime battute, specificava e individuava i motivi di doglianza rivolti nei confronti della sentenza, nonché le parti della pronuncia oggetto di gravame. In particolare, per quanto concerne la posizione della società Inso, l’allora appellante censurava la sentenza di primo grado per aver ritenuto “non esistenti i profili di responsabilità nonostante siano esplicite le clausole contrattuali attributive della responsabilità nel settore della sicurezza sul lavoro, assumendo semplicemente che i nominati responsabili della sicurezza «erano assiduamente presenti sul luogo con funzione di vigilanza»”. Con riferimento, poi, alla posizione della società F.C., l’appellante aveva censurato la pronuncia del Tribunale lucchese per aver ritenuto che “l’astratta determinazione pattizia vale a dimostrare l’ingerenza del subappaltante e, quindi, l’assenza di autonomia del subappaltatore”. L’appellante, invece, evidenziava che la presenza assidua degli incaricati alla sicurezza di Inso non valeva in astratto, così come ritenuto dal Tribunale, ad escludere la responsabilità della società appaltatrice, che avrebbe dovuto, in virtù di precisi obblighi contrattuali, sorvegliare sul rispetto della normativa antinfortunistica da parte dei subappaltatori. Veniva precisato poi, sempre nell’atto di appello, che il legislatore impone degli obblighi specifici in materia di sicurezza, in applicazione degli artt. 1176 e 2087 cod. civ., sia al datore di lavoro che al committente e che tra questi rientrano “non solo la più elementare attuazione delle misure di sicurezza, bensì anche l’esigere l’osservanza delle norme e soprattutto l’uso dei mezzi di protezione, a nulla servendo l’adempimento della mera distribuzione del «foglio di istruzione» della ditta costruttrice e il controllo sul parziale innalzamento dei mezzi utilizzati, unica attività di vigilanza posta in essere dalle società coinvolte nel caso di specie, come risulta dagli interrogatori svolti in sede di processo penale richiamati anche in sentenza”.
L’atto di appello censurava, inoltre, quanto affermato dal Tribunale di Lucca circa l’assenza di responsabilità del committente Kendrion, essendosi indicata sia normativa che giurisprudenza dalla quale emerge, a chiare lettere, la responsabilità dell’imprenditore che non abbia provveduto, avendone la possibilità, all’adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento dei lavori. In buona sostanza, nell’atto di appello si evidenziava come il Tribunale non avesse valutato adeguatamente la posizione del committente, il quale, in presenza di macroscopiche violazioni della normativa antinfortunistica, doveva immediatamente intervenire per ovviare alle omissioni degli appaltatori in punto di sicurezza sul luogo di lavoro e così evitare gli infortuni. In particolare, si chiariva come il trabattello impiegato al momento del sinistro presentava la non regolarità dell’altezza dei parapetti, risultando, inoltre, non montato regolarmente, mancando della campata terminale e delle tavole fermapiede. Si richiamava, altresì, la deposizione di un teste, secondo cui il G.G. stava, addirittura, lavorando su una struttura mobile, essendo la stessa priva della staffa stabilizzatrice e del livellatore a vite, evidenziandosi, infine, come al momento della caduta non risultassero nemmeno presenti, sul trabattello, le cinture di sicurezza.
Sottolinea, conclusivamente, l’odierna ricorrente che l’appello è un mezzo di gravame volto ottenere non il controllo della decisione del giudice di primo grado, bensì una nuova pronuncia sul diritto fatto valere con la domanda originaria, di talché, proprio in ragione di questo suo fine ultimo, deve essere valutato il requisito della specificità dei motivi.

3.2. Il secondo motivo denunzia “violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. in relazione all’art. 92, comma 2, cod. proc. civ., per come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 77/2018”.
La ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, nel liquidare le spese di lite, ha assunto quale unico parametro quello della soccombenza, senza tener conto che, in virtù della citata sentenza della Corte costituzionale, è stato dichiarato incostituzionale l’art. 92, comma 2, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, anche qualora sussistano altre analoghe “gravi ed eccezionali ragioni” (oltre quelle indicate dalla norma stessa), da identificarsi, nella specie, in ragioni di equità.

4. Hanno resistito, con distinti controricorsi, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità o in subordine il rigetto, le società F.C. S.r.l., Kendrion S.p.a. e Generali S.p.a.

5. Sono rimaste solo intimate le società Inso-Sistemi per le infrastrutture sociali S.p.a. e Unipolsai Assicurazioni S.p.a.

6. La ricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.
 

Diritto


7. Il ricorso va accolto.

7.1. Il primo motivo è, infatti, fondato.

7.1.1. Al riguardo, deve premettersi che il presente motivo di ricorso – con cui si censura la decisione del giudice di appello di ritenere privi di specificità, ex art. 342 cod. civ., i motivi di gravame della E.V. – soddisfa la condizione di ammissibilità prescritta dall’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ.
Difatti, chi censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di chiarire, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, non potendo limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma dovendo riportarne il contenuto – come avvenuto, appunto, nel caso che qui occupa – ancorché solo nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. Sez. 5, ord. 29 settembre 2017, n. 22880, Rv. 645637- 01; in senso analogo, di recente, Cass. Sez. 1, ord. 6 settembre 2021, n. 24048, Rv. 662388-01).

7.1.2. Ciò premesso, il presente motivo, oltre che ammissibile, è pure fondato.

7.1.2.1. Al riguardo, infatti, occorre muovere dalla premessa che l’art. 342 cod. proc. civ., come pure il successivo art. 434 dello stesso codice di rito, vanno “interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice”, fermo restando, però, come a tal fine non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di «revisio prioris instantiae» del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 30 maggio 2018, n 13535, Rv. 648722-01). Invero, “il richiamo, contenuto nei citati artt. 342 e 434, alla motivazione dell’atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio”, giacché quanto “viene richiesto – in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata – è che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 27199 del 2017, cit.).
D’altra parte, poi, la “specificità dei motivi di appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 24 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01), nel senso che la prima va sempre “commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice” (Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2016, n. 15790, Rv. 641584-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 26 luglio 2021, n. 21401, Rv. 662214-01), sicché l’appellante “che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare «ex novo>> le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sé l’inammissibilità dell’appello”, e ciò in quanto, sostenere il contrario, “significherebbe pretendere dall’appellante di introdurre sempre e comunque in appello un «quid navi» rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che – a tacer d’altro – non sarebbe coerente col divieto di <<nova» prescritto dall’art. 345 cod. proc. civ.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 8 febbraio 2018, n. 3115, Rv. 648034-01; nello stesso, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 4 novembre 2020, n. 24464, Rv. 659759-01).
Più in particolare, “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 cod. proc. civ., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. Sez. 2, ord. 28 ottobre 2020, n. 23781, Rv. 659392-01; Cass. Sez. 1, sent. 12 febbraio 2016, n. 2814, Rv. 638551 – 01).
Inoltre, deve rilevarsi – per concludere sul punto – che allorché il ricorrente censuri la sentenza con cui il giudice di merito ha affermato l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi, oggetto del giudizio di legittimità “non è la sola argomentazione della decisione impugnata, bensì sempre e direttamente l’invalidità denunciata e la decisione che ne dipenda, anche quando se ne censuri la non congruità della motivazione; di talché in tali casi spetta al giudice di legittimità accertare la sussistenza del denunciato vizio attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto” (Cass. Sez. 5, sent. 1° dicembre 2020, n. 27368, Rv. 659696-01).

7.1.2.2. Orbene, alla luce delle considerazioni che precedono deve ritenersi che, nel caso in esame, le censure formulate dalla E.V., avverso la sentenza del Tribunale lucchese, non difettassero affatto del requisito della specificità.

7.1. 2.2.1. La pronuncia resa dal primo giudice – della quale questa Corte è abilitata a prendere visione, essendo stato evocato con il ricorso un “error in procedendo”, rispetto al quale essa è giudice del “fatto processuale” (cfr., tra le altre, Cass. Sez. Lav., sent. 5 agosto 2019, n. 20924, Rv. 654799-01) – perveniva, per vero, al rigetto della domanda risarcitoria sulla base del seguente iter argomentativo.
Essa, innanzitutto, riconosceva non essere contestata la dinamica del sinistro, ovvero che il G.G. “è caduto all’indietro da un trabattello mentre era intento nello smontaggio/montaggio delle condotte dell’aria condizionata”, soggiungendo che “il piano di lavoro si trovava a 3,20 metri di altezza” e che “l’impalcatura non era dotata del parapetto della misura prevista”, risultando, inoltre, “sprovvisto della campata terminale di protezione”. In altri termini, il Tribunale accertava “deficienze del sistema di prevenzione degli infortuni sul lavoro”.
Su tali basi, tuttavia, pur riconosciuta – anche sulla base delle pattuizioni contrattuali richiamate dall’attrice, che prevedevano l’assunzione di specifici obblighi, a carico della società committente (e di quelle appaltatrice e subappaltrice), in relazione alla sicurezza sul lavoro – “l’astratta responsabilità di tutte le imprese che hanno partecipato alla catena degli appalti sub/appalti nel caso di specie, ossia la Kendrion s.p.a. quale committente originario e titolare del cantiere, la Inso s.p.a. e la F.C. s.r.l., quali appaltatori a loro volta appaltanti”, il giudice di prime cure rigettava la domanda risarcitoria. Esito al quale perveniva sul rilievo che Kendrion avesse fornito la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l’infortunio, avendo “provveduto alla redazione dei piani di sicurezza e coordinamento”, nonché “a presidiare con assiduità il cantiere”; con specifico riferimento, poi, al trabattello – del quale pure era stata accertata la non rispondenza alla normativa antinfortunistica – l’esonero da responsabilità è stato fondato sulla seguente, duplice, constatazione.
Per un verso, infatti, si è sottolineato come trabattelli sarebbero sempre stati montati correttamente, in quanto i dipendenti di Same “avevano anche il foglio di istruzione” (né essendovi state specifiche segnalazioni circa il loro non corretto montaggio); per altro verso, poi, si è evidenziato che essi costituissero “strumento di lavoro proprio dell’opera da eseguirsi da parte della Same”. Quest’ultima circostanza, ovvero la disponibilità esclusiva dei trabattelli in capo alla società datrice di lavoro del G.G., ha condotto all’esclusione della responsabilità anche delle società Inso e F.C., quantunque gli stessi, benché “controllati quasi giornalmente”, ben “difficilmente rispondevano alla normativa di sicurezza perché gli operai, per questione di praticità, smontavano alcune parti”.

7.1.2.2.2. Orbene, a fronte di tale motivazione, l’appellante ha, innanzitutto, censurato “la supposizione” secondo cui, “solo allorquando vi sia l’esplicita omissione dei controlli” – relativi alla sicurezza del luogo di lavoro – sussisterebbe “responsabilità” di soggetti diversi dal datore di lavoro (pur impegnatisi contrattualmente in tal senso), sicché, per converso, la mera “assidua presenza” dei preposti a tali controlli starebbe a denotare “una vigilanza diligente e regolare”. Già tale affermazione, che si trova – pagina 3 dell’atto di appello – quale “incipit” dei motivi di gravame, vale a chiarire la “cornice” entro la quale si collocava l’iniziativa impugnatoria della E.V..
Essa investiva, infatti, l’affermazione secondo cui, ai fini dell’esonero della responsabilità della società committente (e delle altre convolte nella catena degli appalti) – responsabilità pur ritenuta dal Tribunale “astrattamente configurabile” – potesse bastare il rilievo che i loro addetti alla sicurezza avessero provveduto “a presidiare con assiduità il cantiere”, eseguendo verifiche che investivano gli stessi trabattelli, “controllati quasi giornalmente”. A tali affermazioni, infatti, l’appellante – nell’immediato prosieguo del proprio atto di gravame – contrapponeva il rilievo secondo cui, “in caso di ispezione e controllo, qualora si accerti una violazione, più o meno grave, delle norme sulla prevenzione e sicurezza sul lavoro, i responsabili possono e devono sospendere i lavori”; rilievo, chiaramente, riferito alla constatazione (pure operata dal primo giudice) che trabattelli “difficilmente rispondevano alla normativa di sicurezza perché gli operai, per questione di praticità, smontavano alcune parti”.
Difatti, ulteriormente sviluppando le ragioni poste a base del proposto appello, la E.V. evidenziava, proprio con riferimento ai controlli eseguiti sui trabattelli, come l’art. 2087 cod. civ. – applicabile non al solo datore di lavoro, secondo quanto, del resto, già riconosciuto dal Tribunale di Lucca – esiga “l’osservanza delle norme e soprattutto dei mezzi di protezione”, sicché, per ritenere adempiuti gli obblighi da esso imposti, non poteva ritenersi sufficiente la “mera distribuzione del <<foglio di istruzione>> della ditta costruttrice e il controllo sul parziale innalzamento dei mezzi utilizzati”, ovvero “le uniche attività di vigilanza poste in essere dalle società coinvolte nel caso di specie”.
Non a caso, infatti, l’appellante si richiamava, subito dopo, alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, il compito del datore di lavoro – e comunque dei soggetti ad esso equiparati, quanto al rispetto della normativa relativa alla sicurezza del luogo di lavoro (era citata, sul punto, Cass. Sez. 4 Pen., sent. dep. 5 gennaio 2016, n. 16) – “non si esaurisce nella formale predisposizione del piano di sicurezza, nella consegna ai lavoratori dei mezzi di prevenzione e nell’attuazione statica delle misure necessarie, essendo tenuto ad accertarsi che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite”, nonché ad “intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti, attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d’uso pericolose da parte dei dipendenti, quali la rimozione delle cautele antinfortunistiche o il mancato impiego degli strumenti di prevenzione messi a disposizione” (veniva richiamata Cass. Sez. 4 Pen., sent. dep. 4 luglio 2014, n. 29276).
Ad ulteriore corredo delle censure formulate – e con chiaro riferimento alla circostanza dello smontaggio dei trabattelli, e, soprattutto, al fatto che essi “difficilmente rispondevano alla normativa di sicurezza” (come constatato in occasione dell’incidente che costò la vita al G.G., visto che la “l’impalcatura non era dotata del parapetto della misura prevista”, risultando, inoltre, sprovvista “della campata terminale di protezione”) – l’appellante si è richiamata ad un principio più volte affermato da questa Corte. Ovvero, quello secondo cui, “le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso”, donde la responsabilità del datore di lavoro – e dei soggetti ad esso equiparati – “sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente” (veniva richiamata, in particolare, Cass. Sez. Lav., sent. 4 dicembre 2012, n. 27127, Rv. 629176-01).
Tanto premesso, questa Corte ritiene – secondo il già descritto “modus operandi”, che impone al giudice di legittimità di verificare, più ancora che la correttezza della motivazione con cui il giudice di appello abbia escluso la specificità del motivo di gravame, direttamente la conformità dello stesso alla previsione di cui all’art. 342 cod. proc. civ. – che le argomentazioni, in fatto e in diritto, svolte dalla E.V. nel proprio atto di impugnazione consentissero di cogliere la critica rivolta alla decisione del Tribunale di Lucca, specie ove si consideri (come già rilevato) che essa può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini, come avvenuto nella specie, una critica adeguata e specifica della decisione impugnata.

7.1.3. In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto (con assorbimento del secondo, relativo alle spese di lite, dal momento che il giudice del rinvio dovrà provvedere ad una loro rinnovata, totale, regolamentazione alla stregua dell’esito finale della lite; Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2016, n. 4887, Rv . 639295-01), disponendo, per l’effetto, la cassazione in relazione della sentenza impugnata e il rinvio alla stessa Corte di Appello di Firenze, sebbene in diversa sezione e composizione, per la decisione nel merito, oltre che sulle spese anche del presente giudizio.

 

P.Q.M.




La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo e cassa in relazione la sentenza impugnata,

28 Gennaio 2022

Amianto all’Isochimica di Avellino, quattro condanne a 10 anni ai vertici F.S.

Quattro condanne a dieci anni di reclusione e ventidue assoluzioni. È questo il verdetto di primo grado pronunciato dopo cinque ore di Camera di consiglio dai giudici del Tribunale di Avellino sull’Isochimica, la fabbrica del capoluogo irpino nella quale per quasi dieci anni, a partire dalle fine degli anni Settanta, venivano bonificate dall’amianto le carrozza ferroviarie su commesse delle Ferrovie dello Stato. Il collegio giudicante ha condannato a dieci anni di reclusione il responsabile della sicurezza di Isochimica, Vincenzo Izzo, e il suo vice, Pasquale De Luca; Aldo Serio e Giovanni Notarangelo, funzionari di Ferrovie dello Stato.
Disposta anche una provvisionale di 50mila euro per ognuna delle famiglie dei 33 ex operai deceduti per patologie correlate alla prolungata esposizione all’amianto.
La pena corrisponde alla richiesta fatta dalla pubblica accusa rappresentata dal sostituto procuratore di Avellino, Roberto Patscot, per i reati di disastro doloso, omicidio colposo, lesioni personali e rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Assolti per non aver commesso il fatto gli altri imputati che dovevano rispondere di concorso in disastro colposo per omissione di atti di ufficio. Tra questi due ex sindaci di Avellino, Giuseppe Galasso e Paolo Foti.
Il processo, durato quasi sei anni, si è svolto nell’aula bunker del carcere di Poggioreale di Napoli a causa della mancanza di spazi adeguati a disposizione del tribunale di Avellino.
«La condanna dei principali imputati, tra cui Ferrovie dello Stato che deve risarcire le parti civili e i lavoratori dell’attività di scoibentazione delle carrozze ferroviarie dall’amianto, senza la dovuta sicurezza e sistemi di tutela che hanno determinato danni umani e ambientali da malattie asbesto correlate e quindi morte tra i dipendenti. Il riconoscimento del danno procurato ai lavoratori è un dato storico e importante per il territorio e per la città Avellino». Così in una nota il segretario generale della Cgil Napoli e Campania, Nicola Ricci e il segretario generale della Cgil Avellino, Franco Fiordellisi commentano la sentenza. «La Cgil – ricordano Ricci e Fiordellisi – in questi procedimenti si costituisce parte civile. Il giudizio, con condanna, evidenzia lo scempio contro i lavoratori, le persone e l’ambiente. È dunque un momento importante e storico per tutti coloro che da anni combattono contro la sottovalutazione dell’importanza della prevenzione nei luoghi di lavoro e per l’esposizione all’amianto. Dopo quasi 40 anni di battaglie e di aggressioni al territorio, insieme ai lavoratori, alle famiglie dei lavoratori deceduti, alle associazioni, questa sentenza segna un punto importante».CONDIVIDI:

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morì per l’ esposizione all’amianto corte appello firenze 20 20220

I giudici della Corte di Appello di Firenze hanno accolto il ricorso presentato dall’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, contro la sentenza di primo grado del Tribunale di Pistoia che aveva respinto la richiesta di indennità all’INAIL di Susanna Vannucci, moglie dell’autotrasportatore Emilio Corbo, originario di Pistoia, deceduto nel luglio 2012 a soli 62 anni dopo atroci sofferenze per un mesotelioma da esposizione ad amianto.

Nel luglio del 2013 la donna, rimasta vedova con un figlio, Niklas, all’epoca 28enne, aveva fatto domanda amministrativa all’Inail che veniva respinta con la motivazione dell’assenza del nesso causale tra l’attività del coniuge e il mesotelioma. L’istituto ha addirittura ipotizzato che le fibre inalate dall’autotrasportatore che hanno causato la malattia, potessero essere state respirate nella sua abitazione dove era presente una stufa le cui tubature erano in asbesto.

Il presidente dell’Osservatorio nel ricorso presentato alla sezione lavoro della Corte di Appello del capoluogo toscano ha invece sottolineato e provato che il 62enne si è ammalato di mesotelioma ed è deceduto in seguito all’esposizione all’amianto presente nei componenti dei veicoli che ha guidato in qualità di autotrasportatore/artigiano per il periodo dal 1979 al 2009. Non solo, la vittima, del tutto ignara, ha anche usato guanti in amianto per ispezionare freni e motori e per proteggersi dal calore.

Per questo la Corte di Appello ha condannato l’Inail al pagamento in favore della vedova della rendita per i superstiti e del Fondo Vittime Amianto, l’importo degli arretrati che sarà corrisposto ammonterà a circa 240 mila euro, a cui si aggiungerà la rendita mensile di reversibilità di circa 1800 euro che percepirà per tutto il resto della sua vita. Inoltre è stato liquidato anche l’assegno funerario. Su tutte le somme dovranno essere corrisposti anche gli interessi legali.

cassazione 19 gennaio 2022

Presidente: BRONZINI GIUSEPPE Relatore: BUFFA FRANCESCO
Data pubblicazione: 19/01/2022
 

FattoDiritto

Con sentenza del 31.8.16, la Corte d’Appello di Milano ha confermato sentenza del 2013 del tribunale della stessa sede, che aveva rigettato il ricorso della società in epigrafe avverso la rideterminazione del tasso di premio per la voce tariffaria relativa agli addetti alla manutenzione acquedotto e attribuzione malattia professionale del lavoratore C. alla posizione assicurativa della società.
Avverso tale sentenza ricorre per quattro motivi, illustrati da memoria, la società, cui resiste l’INAIL con controricorso.
Con il primo motivo si deduce violazione dell’articolo 41 DPR 1124/65, 115-116 c.p.c. e 2697 c.c. per aver la corte territoriale erroneamente ritenuto l’eziologia professionale della patologia in difetto di prova dell’esposizione qualificata del lavoratore, trascurando che la malattia era insorta dopo dodici anni dalla cessazione del rapporto di lavoro e che nessun altro dipendente era ammalato.
Con il secondo motivo si deduce violazione dell’articolo 41 c.p. e 2697 c.c., per avere la sentenza impugnata imposto alla società l’onere della prova dell’assenza di amianto e non invece all’ INAIL.
Con il terzo motivo si deduce violazione dell’articolo 41 c.p. e 345 c.p.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto inammissibile l’eccezione formulata in appello di difetto di prova del nesso causale, sebbene fosse una mera difesa.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione degli articoli 41 c.p., 61 e 191 c.p.c., per non avere la corte territoriale ammesso la CTU -ritualmente richiesta dalla parte-, senza fornire alcuna motivazione del diniego.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

Occorre premettere che la corte territoriale, premesso che il lavoratore era stato addetto alla manutenzione delle tubazioni di acqua dal 1969 al 1998, ha rilevato la sicura presenza di amianto nelle tubazioni nel 2001 e, per altro verso, che negli anni precedenti non risultavano modifiche della situazione degli impianti contenenti amianto (mentre era intervenuta la bonifica solo a fine 2001).
In tale contesto, ove è pacifico tra le parti da un lato che lavorazione e malattia (mesotelioma pleurico) del lavoratore sono tabellate e, dall’altro lato, che non risulta un mutamento della situazione di fatto negli anni, l’ascrivibilità della patologia del lavoratore al lavoro va ritenuta fino a prova contraria.
Resta salva, naturalmente, l’allegazione e la dimostrazione dell’inesistenza del nesso eziologico, che può consistere solo nella dimostrazione che la malattia sia stata causata da un diverso fattore patogeno, oppure che per la sua rapida evolutività, o per altra ragione, non sia ricollegabile all’esposizione a rischio, in relazione ai tempi di esposizione e di manifestazione della malattia, ma tale prova nella specie non é stata chiesta né data.
Con specifico riferimento all’onere della prova (questione oggetto del secondo motivo di ricorso), la sentenza impugnata é in linea con la giurisprudenza di questa Corte. Si é infatti precisato (Sez_ L, Sentenza n. 13733 del 17/06/2014, Rv. 631336 – 01) che, in caso di richiesta di pagamento di maggiori contributi per variazione in aumento del tasso specifico aziendale, l’INAIL ha l’onere di allegare, e, ove ciò sia oggetto di contestazione, provare, di avere provveduto, nel periodo di riferimento, all’indennizzo che aveva determinate la variazione in aumento del tasso specifico aziendale, mentre la deduzione dell‘insussistenza delle circostanze fattuali che avrebbero reso legittimo tale indennizzo integra una eventuale eccezione del contribuente. Si é anche aggiunto più di recente (Sez. L – , Sentenza n. 21563 del 21/08/2019,Rv. 654820 – 01) che, in tema di criteri per la determinazione del premio per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il datore di lavoro che, pur in presenza di oneri effettivamente sostenuti dall‘I.N.A.I.L. per l’erogazione di prestazioni assicurative ai lavoratori dell’azienda, per un ammontare tale da implicare oscillazione in aumento del tasso specifico aziendale, assuma di essere tenuto al versamento di un premio di importo inferiore a quello preteso dall’Istituto stesso, postula necessariamente la giuridica inefficacia, nei propri confronti, del fatto costitutivo di siffatta pretesa, solo in tal guisa potendo sottrarsi alle obbligazioni nascenti dal rapporto di assicurazione e dalla specifica disciplina della determinazione dei premi; ne consegue, in applicazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova dettati dall’art. 2697 c.c., che incombe al datore di lavoro l’onere di fornire al giudice la dimostrazione dei fatti sui quali fonda la propria eccezione o la propria domanda.

Il terzo motivo di ricorso è infondato, atteso che l’inammissibilità dell’eccezione formulata in appello in ordine al difetto dì prova del nesso causale è giustificata dalla contestuale richiesta della parte di acquisizione di documentazione nuova a sostegno dell’eccezione, inammissibile in sede di appello.

Infine, e venendo al quarto motivo di ricorso, in disparte ogni considerazione circa la non censurabilità in cassazione delle scelte in materia operate dal giudice di merito (v. tra le tante Sez. L, Sentenza n. 23413 del 10/11/2011, Rv. 619479 – 01), il motivo è, a monte, inammissibile per difetto di autosufficienza, riguardando questione di cui non vi è cenno in sentenza e a fronte della quale la parte non ha indicato -e trascritto in ricorso come era suo onere (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16347 del 21/06/2018, Rv. 649535 – 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 32804 del 13/12/2019, Rv. 656036 – 01)- la richiesta formulata alla corte territoriale ed il suo specifico contenuto, non consentendo quindi a questa Corte di valutare la doglianza (tanto più che non è chiaro se la consulenza richiesta avesse carattere percipiente o solo valutativo).
Spese secondo soccombenza.

Sussistono i requisiti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

 

P.Q.M.



rigetta il ricorso;

Tribunale di Firenze, Sez. Lav., 25 marzo 2019, n. 290 – Maxi risarcimento per il decesso a causa dell’amianto di un lavoratore dell’ospedale di Careggi

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Tribunale di Firenze, Sez. Lav., 25 marzo 2019, n. 290 – Maxi risarcimento per il decesso a causa dell’amianto di un lavoratore dell’ospedale di Careggi


Proc. n. 76/2014 Ruolo Generale Lavoro


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Sezione Lavoro


Il Tribunale di Firenze, in composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie di primo grado, nella persona del giudice dott.ssa Carlotta Consani, all’udienza del 18 marzo 2019, nella causa di primo grado iscritta al n. 76 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2014, pendente
TRA
… elettivamente domiciliati in Firenze alla Via Curtatone n. 2 presso lo studio dell’Avv. Pietro L. Frisani che li rappresenta e difende, come da mandati in calce al ricorso introduttivo del presente giudizio;
RICORRENTE
E
REGIONE TOSCANA, in persona del l.r. pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti. … ed … elettivamente domiciliata in Firenze alla Piazza dell’Unità d’Italia n. 1 presso l’Avvocatura Regionale, come da mandato in calce al ricorso notificato;
RESISTENTE
E
LA GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D, in persona del Commissario Liquidatore prò tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Omissis ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Firenze al Lungarno Vespucci n. 8, come da procura in calce alla copia notificata dell’atto introduttivo;
RESISTENTE
ha pronunciato la seguente
 

SENTENZA


FattoDiritto

1. Con ricorso depositato il 13.1.2014, Omissis hanno convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie, la REGIONE TOSCANA e LA GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D per ivi sentir accertare la responsabilità in via solidale e/o concorrente della Gestione Liquidatoria della cessata U.S.L. 10/D di Firenze e della Regione Toscana in relazione ai danni dagli stessi subiti sia in proprio che in qualità di eredi di … deceduto l’1.6.2012 a causa di mesotelioma pleurico contratto in conseguenza dell’esposizione all’amianto nei luoghi di lavoro della lavanderia e delle due centrali termiche di Careggi; con vittoria di spese, diritti e onorari di giudizio da distrarsi in favore del procuratore antistatario.

2. A fondamento delle conclusioni di merito rassegnate, i ricorrenti hanno dedotto che … è stato dipendente dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova (poi Ospedale di Careggi), prima (18.1.1965-16.9.1980), e della cessata USL 10/D, poi (17.9.1980- 1.1.1994), lavorando con mansioni di lavandaio in un primo periodo (18.1.1965-31.3.1977) e con mansioni di fuochista in un secondo periodo (1.4.1977-1.1.1994); che nel luglio del 2010 è stato diagnosticato a un adenocarcinoma polmonare e nel dicembre 2011 un mesotelioma pleurico sinistro; che il mesotelioma è stato causato dall’esposizione all’amianto nei luoghi di lavoro costituiti dalla lavanderia e dalle due centrali termiche di Careggi; che l’organizzazione sanitaria fiorentina ha riconosciuto l’esposizione ad amianto di … nel corso della sua attività lavorativa (v. la lettera del 22/5/2012 del Responsabile dell’U.F. Prevenzione Igiene e Sicurezza luoghi di lavoro dell’Azienda Sanitaria di Firenze sub doc. 6 fase, ric.) e che l’I.N.A.I.L. in data 19/3/2012 ha riconosciuto la malattia professionale di … (v. doc. 5 fase. ric.).
3. LA GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D si è costituita in giudizio chiedendo, nel merito, in tesi, di accertare che non esiste responsabilità del Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D e che nessuna somma a titolo di risarcimento danno è dovuta dal Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D nell’ipotesi che sia accertata una responsabilità della cessata USL 10D, che sia valutata in via equitativa la somma di giustizia dovuta dal Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D a … e … alla luce dei criteri liquidativi indicati dal giudice di legittimità e detratta la somma complessivamente dovuta a titolo di indennità dall’I.N.A.I.L., pagata od ancora non pagata; in ogni caso, con vittoria delle spese legali.
4. La Regione Toscana si è costituita in giudizio eccependo, in via preliminare, l’incompetenza del giudice del lavoro a favore del giudice civile ordinario; il proprio difetto di legittimazione passiva ex L.R. TOSCANA n. 75/1997; nel merito, chiedendo di respingere tutte le richieste dei ricorrenti in quanto inammissibili e/o infondate; con vittoria di spese e compensi professionali.
5. La causa è stata istruita con prove documentali, orali e due CTU medico-legali, e all’udienza del 18 marzo 2019 è stata discussa e decisa come da dispositivo pubblicamente letto con fissazione del termine di 60 giorni per il deposito della motivazione ex art. 429 c.p.c.
6. All’esito dell’istruttoria espletata, il Tribunale ritiene che il ricorso sia fondato nei termini di seguito esposti e che, pertanto, in detti termini debba trovare accoglimento.
7. Preliminarmente, il Tribunale deve dare atto che la GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D a pag. 3 della propria comparsa di costituzione e risposta ha affermato testualmente che ‘non contesta la propria legittimazione passiva né la legittimazione attiva dei ricorrenti alla domanda proposta”.
8. Pertanto, considerato che, come, affermato dalla Sezioni Unite della S.C. (n. 2951/2016), “La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto. ”, deve ritenersi sussistente la legittimazione passiva della Gestione Liquidatoria anche per il periodo anteriore al 1979 (solo in sede di note conclusionali autorizzate del 20.10.2017, e, perciò, inutilmente stante il già avvenuto riconoscimento, il Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D ha eccepito che i debiti nati prima al 1979 sarebbero riferibili non alle nuove Unità Sanitarie Locali nate con la 1. n. 833/1978 e con i D.P.R. del 1979 ma ai Comuni). 
9. Peraltro, deve anticiparsi che, come accertato dal CTU incaricato in sede di rinnovo dell’accertamento peritale, dott. A. , con conclusioni che il Tribunale condivide, il è stato affetto solo da mesotelioma pleurico manifestatosi clinicamente nel luglio 2010 ma con inizio del proprio cammino patogenetico in un momento imprecisabile dell’inizio della propria attività lavorativa (comunque nei decenni pregressi): pertanto, non essendo possibile determinare se l’inizio del processo patogenetico si collochi tra il 1965 e il 1979 o dopo il 1979 l’accoglimento dell’eccezione, posto che nessuna parte ha chiesto l’autorizzazione alla chiamata in causa del Comune ex art. 420 co. 9 c.p.c., nulla avrebbe mutato rispetto alla condanna delle due sole parti convenute in giudizio ex art. 2055 c.c.
10. Sempre in via preliminare, ritiene il Giudicante che tutte le domande risarcitorie spiegate dai ricorrenti, e, quindi, sia, quelle proposte iure hereditario, sia, quelle proposte iure proprio, debbano essere trattate nelle forme del processo del lavoro ex art. 409 e ss. c.p.c. (trattasi di questione di rito e non di competenza), deponendo in tal senso, sia, ragioni di economia processuale e certezza del diritto scaturenti circostanza che tutte le pretese azionate nel presente giudizio implicano l’accertamento del medesimo fatto storico, sia, il dettato dell’art. 40 c.p.c. (v. Cass. civ., sez. lav., n. 18503/2016).
11. Sempre in via preliminare, deve essere rigettata, in quanto infondata, l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata da Regione Toscana.
12. Come affermato dalla S.C. di Cassazione (v. Cass. civ., sez. III, n. 19133 del 23/09/2004), infatti, “Per effetto della soppressione delle Unità sanitarie locali e della conseguente istituzione delle Aziende Unità Sanitarie locali (aventi natura di enti strumentali della Regione), si è realizzata una fattispecie di successione “ex lege” delle Regioni in tutti i rapporti obbligatori facenti capo alle ormai estinte U.S.L., con conseguente esclusione di ogni ipotesi di successione “in universum ius” delle A.S.L. alle preesistenti U.S.L.; poiché, però, tale successione delle Regioni è caratterizzata da una procedura di liquidazione, che è affidata ad un’apposita gestione stralcio, la quale è strutturalmente e finalisticamente diversa dall’ente subentrante ed individuata nell’ufficio responsabile della medesima unità sanitaria locale a cui si riferivano i debiti e i crediti inerenti alle gestioni pregresse, usufruisce della soggettività dell’ente soppresso (che viene prolungata durante la fase liquidatoria), ed è rappresentata dal direttore generale della nuova azienda sanitaria nella veste di commissario liquidatore, il processo instaurato nei confronti di una U.S.L. prima della sua soppressione prosegue tra le parti originarie – salva l’ipotesi di intervento o chiamata in causa della Regione nella sua veste di successore a titolo particolare -, con le relative conseguenze in ordine alla legittimazione attiva e passiva di detto organo dì rappresentanza della gestione stralcio ai fini della proposizione delle impugnazioni.” (si evidenzia come la S.C. abbia ritenuto ammissibile l’appello proposto dalla Regione e dal commissario liquidatore).
13. Nel merito, deve, innanzitutto, ritenersi pienamente provato, alla luce delle risultanze dei documenti in atti (v., in particolare, doc. 6 fase, rie.) e delle testimonianze assunte, che … sia stato esposto all’amianto durante il periodo lavorato alle dipendenze dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova (poi Ospedale di Careggi) dal 18.1.1965 al 16.9.1980, nonché a quelle della cessata USL 10/D di Firenze dal 17.9.1980 al 1.1.1994, durante il quale egli ha lavorato con mansioni di lavandaio dal 18.1.1965 al 31.3.1977 e di fuochista dal 1.4.1977 al 1.1.1994.
14. Parimenti, risulta raggiunta la pienezza della prova in ordine alla omessa fornitura da parte dell’organizzazione sanitaria pubblica datrice di dispositivi di protezione individuale (sulla cui effettiva e corretta utilizzazione il datore di lavoro avrebbe poi avuto l’obbligo di vigilare sanzionando le relative inosservanze), nonché in ordine alla radicale mancanza di qualunque tipo di informazione e formazione (addirittura fino ad almeno il 2001) rivolta ai lavoratori sui rischi connessi all’esposizione all’amianto e sulle misure di prevenzione/procedure di sicurezza da adottare per proteggersi da essi.
15. Il teste Omissis , collega del … presso la centrale termica dal 1977/1978 fino al pensionamento del de cuius, e rispetto al quale non sono emersi elementi che ne inficino l’attendibilità e la credibilità, ha riferito che: quale fuochista, effettuava servizi di controllo accensione, alimentazione, controllo acqua e pressione, interventi di riparazione; quando i cordini di amianto erano consumati, i fuochisti fermavano la pompa d’acqua calda e li sostituivano; le caldaie all’interno erano rivestite di amianto così come d’amianto erano anche le guarnizioni e le fasce intorno alle tubazioni; nello svolgimento delle mansioni presso le centrali termiche di Careggi i fuochisti prendevano a mani nude nastri e guaine utilizzati per fasciare tubazioni e cavi, rivestimenti isolanti di tubazioni, corde, guarnizioni etc., tutte parti nelle quali era presente l’amianto; fra gli anni ’80 e ’90, una delle due caldaie fu aperta e fu tolto da squadre esterne tutto quello che, di amianto, poteva essere eliminato, ma ancora nel 2000, quando il teste andò in pensione, i lavori erano in fase di stallo perché di fatto l’amianto era ovunque, sì da rendere necessario sostituire la caldaia; fino al pensionamento del teste (2000), le caldaie rimasero le stesse: una sempre aperta e l’altra in funzione; nessuno disse ai fuochisti di adottare delle precauzioni durante i predetti interventi delle squadre esterne, tanto che furono lasciati andare e venire dalla sala caldaie, che attraversavano per arrivare allo spogliatoio, senza protezioni; i fuochisti hanno continuato a lavorare alla caldaia funzionante che era accanto a quella aperta e piena di amianto; sulla caldaia funzionante non furono fatti interventi relativi all’amianto, e fu sostituito un solo tubo; l’altra caldaia, avendo molti tubi da sostituire, venne aperta e lasciata così; ai fuochisti non fu fornita alcuna informazione sui rischi connessi all’esposizione all’amianto, né vi erano procedure di formazione e sicurezza specifiche per gli operai specializzati che svolgevano le mansioni di fuochista.
16. Il teste Omissis dipendente dal 1988 della USL 10/D e addetto al settore della Prevenzione, Igiene e Sicurezza del Lavoro, precisato di essere venuto a conoscenza del caso specifico nel 2015, quando gli è stato chiesto dal Direttore del Dipartimento di verificare quello che avevamo in archivio circa la presenza di amianto e la storia lavorativa del signor . ha confermato che il … è stato addetto alla lavanderia e successivamente alle caldaie; che, quale addetto alla lavanderia, svolgeva anche alcuni compiti di manutenzione; che alla centrale termica faceva il conduttore di caldaie, compresi alcuni compiti di manutenzione.
Il teste ha, poi, riferito, non disponendo di documentazione al riguardo, di poter solo ipotizzare che l’amianto fosse presente nei vecchi locali della lavanderia, e ciò in ragione del fatto che all’epoca tale materiale era di uso comune nelle lavorazioni a caldo, come coibente delle tubazioni. Con riguardo, invece, ai nuovi locali della lavanderia, il teste ha dichiarato di disporre di documentazione circa la presenza di amianto su alcune tubazioni, anche lì come isolante che fasciava le tubazioni, e in una caldaia, precisando che l’amianto in lavanderia fu tolto con un piano di bonifica nel 1992.
Per quanto riguarda la centrale termica (il … dal 1977 ha lavorato prevalentemente nella centrale di San Luca), il teste ha confermato la presenza di amianto all’interno della caldaia, nonché di amianto mescolato a malta cementizia sulla piattaforma su cui appoggiava la caldaia, e, ancora, di tubazioni che partivano dalla caldaia e correvano nei sotterranei di Careggi, in parte coibentate con amianto. Al riguardo, il teste ha dichiarato di non aver reperito documenti che attestino piani di smaltimento relativi alle tubazioni, mentre il piano di smaltimento di una caldaia e della sua piattaforma è stato attuato nel 2011 quando la centrale fu demolita per costruirne una nuova. 
Quanto agli interventi della S.I.R.A.M. di cui al doc. 4 della Gestione Liquidatoria (eseguiti a seguito dell’ispezione avvenuta nel 1983 e di cui al doc. 3 della Gestione Liquidatoria), il teste ha dichiarato di riconoscerlo, precisando che circa tali interventi ha “trovato solo queste indicazioni comportamentali.” (ossia quelle di cui al doc. 4). Il teste ha, inoltre, affermato quanto segue: “Non ho nessuna informazione se il personale addetto sia stato informato adeguatamente e tenuto ad usare le protezioni. Non ho trovato documentazione che confermasse la presenza effettiva delle protezioni”.
17. Al riguardo, deve, dunque, evidenziarsi che, intanto, il doc. 3 della Gestione Liquidatoria comprova che ancora nel 1983, venivano lasciati pezzi di amianto, residui di lavorazioni di manutenzione, sul pavimento del locale caldaie, e che l’adozione di precauzioni durante la manipolazione dell’amianto (consistenti nell’indossare maschere idonee e tute del tipo monouso, inumidire i pezzi di amianto prima di manipolarli in qualunque modo, inumidire e chiudere bene in sacchi di plastica i residui di amianto provenienti da lavorazioni) è prospettata in tale documento quale una proposta di modifica, così comprovando che fino ad allora non erano affatto prescritte e in uso simili modalità operative. In tale documento, sempre sub specie di proposta di modifica, si raccomanda di limitare l’uso dell’amianto all’indispensabile: ergo non corrisponde al vero che dal 1984 l’uso dell’amianto nelle centrali termiche sia cessato (vedi capitolato di prova orale della Gestione Liquidatoria).
18. Quanto al doc. 4 della Gestione Liquidatoria (“interventi di adeguamento delle centrali termiche di Careggi richiesti dal Servizio di Sicurezza”), deve, invece, osservarsi come in esso si affermi che l’uso dell’amianto è stato “radicalmente ridotto” (e, quindi, non eliminato) nelle due centrali termiche per effetto del ripannellamento dei generatori di vapore con prodotti in fibre ceramiche.
19. Che l’uso dell’amianto, anche nelle centrali termiche, non sia affatto cessato nel 1984 (vedi, invece, il cap. 4 della Gestione Liquidatoria) trova conferma anche nel fatto che sempre in detto doc. 4 si afferma che per quegli usi per i quali è ancora indispensabile impiegare l’amianto, sono disponibili in centrale maschere e tute del tipo monouso. Ma sul punto si è visto che il teste non è stato in grado di confermare né che questi D.P.I. fossero effettivamente presenti nelle centrali, né che i lavoratori fossero stati resi edotti della doverosità del loro utilizzo alla luce dei rischi connessi all’esposizione all’amianto. Né, in ogni caso, si dispone della prova che il datore di lavoro vigilasse sulla puntuale osservanza di queste misure di protezione, quand’anche esistenti.
20. Ancora, il teste …, collega del de cuius presso la centrale termica di San Luca, ma qualche volta anche presso quella universitaria, nonché, occasionalmente, anche nel giro di controllo delle sotto-centrali  per Careggi, a far data dalla primavera del 1985 e fino al pensionamento del anche rispetto a tale teste non sono emersi elementi che ne inficino l’attendibilità e la credibilità), ha confermato che fra le loro mansioni vi erano le manutenzioni di emergenza, che le caldaie erano coibentate con amianto, così come tubi e guarnizioni; e che dovevano maneggiare nastri e guaine utilizzati per fasciare tubazioni e cavi, rivestimenti isolanti di tubazioni, corde, guarnizioni etc., tutte parti nelle quali era presente l’amianto.
Il teste … ha, poi, confermato che le operazioni di rimozione dell’amianto iniziarono negli anni ’90 e che si conclusero nel 2011 o 2012 quando la centrale fu definitivamente distrutta e ricostruita. La centrale universitaria, invece, spiega il teste, subì un intervento parziale e rimase per molto tempo spenta perché i lavori erano in corso di esecuzione. Anche il teste …, come il teste …, ha confermato che una delle due caldaie era funzionante e lavorava nei casi di emergenza e nell’inverno quando c’era bisogno di più vapore, mentre l’altra era lì accanto aperta. Il teste ha confermato, altresì, che il personale doveva attraversare la sala caldaie anche quando le caldaie non funzionavano per accedere a spogliatoio, bagni e docce.
Quanto ai dispositivi di protezione individuale, il … ha negato che essi siano stati forniti ai lavoratori, fatta eccezione per la messa a disposizione di una maschera per tutti in un armadietto (“Guanti mai. Lavoravamo a mani nudeDa metà degli anni 90 la ditta di manutenzione ci dava occasionalmente dei guanti. A me hanno dato le mascherine bianche tipo quelle che vengono usate per proteggersi dallo smog, occasionalmente, e solo perché le ho chieste io. Ma per l’amianto servivano a poco perché ci passa la polvere. ”). Infine, il teste ha riferito la totale carenza di qualunque informazione da parte del datore di lavoro sui rischi connessi all’esposizione all’amianto, così come l’assenza di procedure di sicurezza specifiche, precisando che al … fu fatto seguire solo il corso di formazione sull’antincendio.
21. Le deposizioni dei testi … e … hanno, poi, trovato puntuale riscontro anche nella testimonianza di … (v. verbale udienza del 16.2.2016), conduttore di generatori a vapore all’ospedale di Careggi, presso la centrale termica dell’università dal 1976 al 2001 e anch’egli risultato indifferente all’esito del giudizio (“Ero in turno insieme a lui che stava prevalentemente nella centrale di San Luca.”). In particolare, si evidenzia come il teste abbia ribadito che almeno fino al 2001 non esisteva alcun protocollo né venivano fornite informazioni sui rischi di esposizione all’amianto.
22. Per quanto concerne il profilo soggettivo della responsabilità datoriale, premesso che il datare di lavoro, già in forza dell’art. 2087 c.c. costituente norma di chiusura del sistema, è sempre tenuto ad attivarsi per conoscere le situazioni di rischio e le fonti di pericolosità dell’attività lavorativa espletata, in base alle migliori conoscenze tecniche scientifiche del momento storico, la S.C. di Cassazione è da tempo consolidata nel l’affermare che “la conoscenza della nocività dell’amianto per la salute risale all’inizio del 1900 (se ne parla già nel r.d. 14.6.1909, n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri; idem, nel d.lgt. 6/81916, n.1136; e nel r.d.1720/1936). Secondo un’acquisizione, divenuta patrimonio comune della giurisprudenza di merito e di legittimità, la conoscenza della pericolosità dell’esposizione all’amianto per il rischio di mesotelioma risale almeno ai primi anni sessanta, sia in ambito scientifico che imprenditoriale (tanto che, in relazione a tale ultimo ambito, sì cita la nota iniziativa delle ferrovie inglesi di bonificare le carrozze già nel 1968; cfr. Cass., sez IV, 43786/2010 e Cass., sez IV, n. 38991/2010). Mentre l’asbestosi – pure essa una malattia mortale o comunque produttrice di una significativa abbreviazione della vita – è stata inserita nell’elenco tipizzato delle malattie professionali dalla legge 455/1943. […] In relazione alla medesima obiezione cronologica riferita all’epoca della conoscenza della nocività dell’amianto, andava poi pure tenuto conto del risalente e consolidato orientamento di legittimità (apartire da Cass. 27.6.1979; 14.4.1994, est. Battisti; 6858/90; 988/2003; 37432/2003; 988/2003; 37432/2003; 8204/2003; 7630/2005; Cass., sez IV, 43786/2010 e Cass., sez IV, 38991/2010) secondo il quale l’accertamento di questa epoca non rileva ai fini della responsabilità del datore per mesotelioma pleurico, perché le misure protettive da adottare sarebbero state comunque quelle già prescritte dall’ordinamento per l’asbestosi (malattia anch’essa mortale e comunque gravemente invalidante) ossia quelle prescritte per tutelare il medesimo bene salute offeso (dall’una o dall’altra malattia). Ciò in quanto, ai fini del nesso causale tra colpa ed evento, quest’ultimo va considerato come grave danno alla salute del lavoratore e non inteso come specifico evento concretamente poi verificatosi (Cass., IV, 5919/1991, Rezza; Cass., IV, 5037/2000, Camposano; Cass., IV, 4675/07 Bartalini; Cass. IV, 21513/09, Stocchi; Cass., sez IV, 43786/2010 e Cass., sez IV, 38991/2010).” (così, Cass. civ., sez. lav., n. 18503/2016). 
23. Nello stesso senso si veda anche Cass. civ., sez. lav., n. 8204/2003, che, si occupa di un caso di mesotelioma causato dall’amianto, manifestatosi nel 1990, con esposizione a rischio accertata tra il 1968 e il 1983, e nella quale la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi di un lavoratore, già addetto alla lavorazione dell’amianto, deceduto per mesotelioma, ritenendo congruamente motivato il giudizio secondo la quale il rispetto di tutte le prescrizioni cautelative possibili all’epoca dello svolgimento dell’attività lavorativa, ed in particolare di quelle concernenti la riduzione di fumi o polveri nocive e comunque dei rischi, avrebbe, alla stregua di un giudizio probabilistico, ridotto il rischio di assumere la dose innescante e quindi di contrarre la malattia (v., ad esempio, art. 21 D.P.R. n. 303/56, normativa concepita per limitare l’esposizione dei lavoratori alle polveri tossiche e nocive “di qualsiasi specie ”, e, quindi, applicabile anche alle fibre c.d. ultra fini e invisibili).
24. Ancora, in Cass. civ., sez. lav., n. 9238/2011, si legge che “I giudici di appello hanno, infatti, correttamente osservato come già al tempo dell’esposizione del lavoratore al rìschio morbigeno era nota la intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto impiegato nelle lavorazioni, tanto che l’uso delle stesse era sottoposto a particolari cautele indipendentemente dalla concentrazione per centimetro cubo. Tale constatazione trova conferma nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale ha reiteratamente osservato (v. ad. es. già Cass. n. 4721/1998) come la pericolosità dell’amianto fosse sicuramente nota da epoca ben anteriore al 1970, per come dimostra un complesso significativo di disposizioni normative in tal senso rilevanti, quali, fra le altre, il D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21 il quale stabiliva che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualsiasi specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti a impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente, precisando, altresì, che “le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione” (e cioè, devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri stesse), o ancora, nell’ambito del medesimo testo, l’art. 9, che prevedeva il ricambio di aria, l’art. 15, che prevedeva che, anche fuori dell’orario di lavoro, si dovesse ridurre al minimo il sollevamento delle polveri e, proprio a tal fine, prescriveva l’uso di aspiratori, l’art. 18, che proibiva l’accumulo di sostanze nocive, l’art. 19, che imponeva dì adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 25, che prescriveva, quando potesse esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori fossero forniti di apparecchi dì protezione. Correttamente, pertanto, la corte territoriale ha ritenuto che, in un ambiente di lavoro esposto al rischio del sollevamento delle polveri, la legge già esistente all’epoca imponeva di impedire che ciò avvenisse, facendo onere al datore di lavoro di tener conto della natura (e della specifica pericolosità) delle polveri al fine di adottare tutte le misure idonee a ridurre il rischio da contatto.”.
25. Per giunta, premesso che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. non è limitata alla violazione di norme d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa, invece, nell’attuale sistema italiano, supportato a livello costituzionale, alla cura del lavoratore attraverso l’adozione, da parte del datore di lavoro, nel rispetto del suo diritto di libertà d’impresa, di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità, pur valutata in concreto, delle conoscenze, si rivelino idonee, secondo l’id quod plerumque accidit, a tutelare l’integrità psicofisica di colui che metta a disposizione della controparte la propria energia vitale (v. ad es. Cass., 23 maggio 2003, n. 8204; 29 dicembre 1998, n. 12863; 8 aprile 1995, n. 4078), nel caso di specie, ai fini della valutazione della sussistenza e del grado della colpa datoriale, non può non valorizzarsi il fatto che il datore di lavoro non fosse costituito da una piccola impresa che si dibatte in un turbinio di leggi da cui trarre indicazioni comportamentali, ma da una organizzazione sanitaria pubblica, come tale avente quale fine istituzionale quello della prevenzione e della tutela salute della generalità dei consociati, a cominciare da quella dei propri dipendenti; e rispetto alla quale, pertanto, non è configurabile alcuna causa che valga ad escluderne o anche solo ad attenuarne la responsabilità per non aver rilevato tempestivamente il serio e non ipotetico pericolo incombente, costituito dalle fibre d’amianto diffuse nei locali della lavanderia e delle centrali termiche, adottando rimedi che la comunità scientifica intemazionale aveva ormai allo studio, dal momento che, come detto, erano ben noti gli allarmi manifestati dalla scienza medica sui nocivi effetti incidenti sul bene primario della salute (che la Costituzione e il codice garantiscono) in caso di situazioni non occasionate da congiunture sporadiche o transitorie, ma avvalorate da attività continuative, contigue alle fonti di diffusione delle particelle di asbesto (v. Cass. civ., sez. lav., n. 644/2005).
26. Venendo, dunque, a trattare del nesso di causalità fra la malattia che ha cagionato il decesso di …, la comprovata esposizione dello stesso all’amianto nel lungo periodo lavorato presso l’organizzazione sanitaria pubblica, deve darsi atto che il CTU incaricato, dott. Omissis, all’esito delle operazioni peritali effettuate, è pervenuto alle seguenti valutazioni medico-legali (v. relazione tecnica del 10.2.2019):
❖ era affetto al momento del decesso da mesotelioma pleurico coinvolgente il contiguo parenchima polmonare e metastatizzante ad alcuni linfonodi paraortici e a livello costale; a livello cardiaco esiti di IMA (1996 e 2002) trattati con angioplastica;
❖ … non fu affetto da duplicità neoplastica ma solo da mesotelioma pleurico manifestatosi clinicamente nel luglio 2010, ma con inizio del proprio cammino patogenetico in un momento imprecisabile dell’inizio della propria attività lavorativa (comunaue nei decenni pregressi);
❖ il decesso del … è stato determinato dal mesotelioma pleurico mentre non risultano documentate concause efficienti nell’incidere sull’evento morte;
❖ ha riportato, a termini di responsabilità civile, un’invalidità del 60% con decorrenza luglio 2010 (manifestazione della grave sintomatologia respiratoria connessa al mesotelioma), dell’80% con decorrenza dal 3.4.2012 e del 100% con decorrenza dal 9.5.2012 fino al decesso.
27. Ciò posto, deve rilevarsi che la Gestione Liquidatoria, nel costituirsi in giudizio, ha eccepito che, come risulta dal libretto di lavoro del … (v. doc. 2 fase, rie.), questi dal 1952 ha lavorato come aiuto operaio agricolo, e, dal 16.1.1956 al 18.1.1965 con piccole interruzioni, presso diverse filature pratesi quale filatore, e che, pertanto, tale mansioni hanno implicato esposizione all’amianto per il trasporto dei sacchi di juta riciclati quale aiuto operaio agricolo, nonché, quale filatore, per l’avvolgimento del filato sui fusi, per la pulizia delle macchine e per la cernita dei tessuti.
28. Orbene, a tale riguardo il dott. … , ha rilevato quanto segue: premesso che non si pone una questione di dose inducente/effetto indotto in quanto anche quantità irrisorie di fibre amiantifere sono idonee ad indurre la genesi del mesotelioma pleurico, nel caso di specie, mentre è risultata provata in giudizio in modo certo e in concreto, la presenza di componenti amiantifere coibentate e non negli ambienti di lavoro frequentati e nei materiali gestiti dal … presso l’organizzazione sanitaria pubblica convenuta; al contrario, con riguardo ai pregressi periodi lavorati come aiuto operaio agricolo e come filatore non è stata fornita nel presente giudizio alcuna prova diretta e concreta del fatto che il … sia stato effettivamente esposto a componenti amiantifere coibentate e non.
29. Nel presente giudizio, infatti, non è stato dimostrato, in concreto e con riguardo allo specifico caso, che il … usasse sacchi di juta sfilacciati piuttosto che integri, o che vi fossero fibre amiantifere diffuse nel materiale tessile e/o agricolo in essi contenuto, o, ancora, che nelle filature in cui egli ha lavorato, e, quindi, nei materiali per filature e/o nelle apparecchiature tessili vi fossero componenti amiantifere e che esse fossero non coibentate piuttosto che in condizioni confinate o in matrice compatta.
30. Ne deriva che l’esposizione all’amianto del … durante il precedente periodo lavorato nel settore agricolo e tessile può essere qualificata come possibile solo ed esclusivamente in base ai dati della letteratura scientifica, e, quindi, in astratto.
31. E, a parere del Giudicante, l’onere di fornire, invece, in concreto, una simile prova nel presente giudizio gravava sulla organizzazione sanitaria pubblica convenuta, trattandosi della eccezione di una causa, alternativa a quella dedotta dai ricorrenti, da sola sufficiente a provocare l’evento (i.e. la malattia).
32. Come è noto, del resto, “La disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del “più probabile che non”), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del “50% plus unum” (v., explurimis, Cass. civ., sez. 3, n. 15991 del 21/07/2011).
33. In altri termini, per consolidato orientamento del giudice di legittimità, (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. 3, n. 13214, del 26/07/2012), a fronte di una pluralità di possibili cause alternative, una di esse può legittimamente essere ritenuta idonea a costituire la causa effettiva in base al criterio del “più probabile che non”: l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice civile anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio.
34. Ed ecco che allora questo Giudice, nel caso di specie, ritiene che il complesso degli elementi probatori acquisiti nel presente giudizio induca univocamente a ritenere che, ancorché entrambi i periodi lavorativi (i.e. quello in ambito agricolo-tessile e quello in ambito ospedaliero) risultino potenzialmente idonei, sul piano eziologico, a innescare e sviluppare il processo patogenetico de quo, la causa effettiva del processo patogenetico sfociato nel mesotelioma pleurico che determinato il decesso di … debba essere individuata nell’esposizione all’amianto avvenuta nel periodo lavorato in ambito ospedaliero dal 1965 al 1993, in quanto “più probabile” rispetto alla causa alternativa prospettata da parte convenuta, dal momento che nel presente giudizio è stato direttamente accertato che il … nel predetto periodo è venuto concretamente e continuativamente a contatto, in assenza di dispositivi di protezione individuale, con fibre amiantifere anche non coibentate presenti negli ambienti di lavoro e nei materiali utilizzati, mentre l’esposizione ad amianto nel periodo lavorato quale operaio agricolo e tessile, pur astrattamente possibile alla luce dei dati della letteratura scientifica, è rimasta priva di qualunque specifico, puntuale e concreto riscontro in riferimento alla reali condizioni dei luoghi, degli ambienti, dei materiali, delle attrezzature con i quali venne effettivamente a contatto tra il 1952 e il gennaio 1965.
35. Le conclusioni cui è giunto il CTU, dott. A. , devono, dunque, essere condivise e poste alla base della presente pronuncia, essendo fondate sui dati obiettivi emersi nel corso dell’indagine peritale, valutati alla stregua di esatti criteri della scienza medico-legale e correttamente applicati alla fattispecie; esse sono inoltre sostenute da una motivazione dettagliata, esauriente e priva di vizi logici, anche per quanto concerne la replica alle osservazioni critiche dei consulenti di parte. 
36. Si precisa che il Tribunale ha disposto il rinnovo della CTU medico-legale, ritenendo che la prima CTU, anche all’esito dei chiarimenti fomiti dall’ausiliario tecnico per primo incaricato (v. elaborato del 3.8.2016 e integrazione del 26.6.2018), non fosse esaustiva, in particolare, sotto il profilo dell’indagine sul nesso di causalità materiale alla luce del periodo lavorato in ambito non sanitario, e dell’accertamento della patologia causa del decesso a fronte delle due diagnosi succedutesi.
37. Si deve, infine, trattare dell’accertamento e della liquidazione del danno non patrimoniale di cui i ricorrenti chiedono il ristoro nel presente giudizio, sia, iure proprio, sia, iure hereditario.
38. Con riguardo alla prima specie di danno, vi è da dire che esso si identifica nel danno da perdita del rapporto parentale e che il Tribunale, ai fini della sua liquidazione in via (necessariamente) equitativa, ritiene di dover fare applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano del 2018.
39. Considerato, dunque, che la condotta illecita datoriale appare integrare gli estremi di un delitto colposo (art. 589 c.p.), e tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, e, in particolare, dell’età della vittima (nato nel 1939), della vedova (nata nel 1938) e dei due figli (nati, l’una, nel 1965, l’altro, nel 1972) al momento del decesso, dell’intensità e qualità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto coniugale del deceduto con la moglie e il rapporto parentale con i due figli – non conviventi ma residenti nelle immediate vicinanze dei genitori – sì come risultanti dai memoriali sub docc. 16 e 17, nonché della estrema penosità del lungo e ingravescente periodo di malattia durante il quale gli odierni ricorrenti hanno assistito e accompagnato il loro congiunto fino alla morte, nella angosciante e disperante consapevolezza, almeno dal dicembre 2011, delle limitate prospettive terapeutiche e della conseguente prognosi infausta, si ritiene equo liquidare nella somma di € 200.000,00 il danno non patrimoniale da morte del congiunto subito da ciascuno dei ricorrenti, che devalutata alla data del decesso e rivalutata alla data della pronuncia, risulta pari a € 212.129,29, da maggiorare degli accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo.
40. Per quanto concerne, invece, il danno non patrimoniale azionato iure hereditario dai ricorrenti (e, quindi, liquidabile iure proprio alla vittima), deve rilevarsi come il Tribunale ritenga di dover aderire all’orientamento interpretativo sostenuto dalle Sezioni Unite della S.C. (Cass., Sez. Un.,, seni. n. 15350/2015), alla stregua del quale i così detti “danni terminali”, di fonte giurisprudenziale e cristallizzati dalla Suprema Corte sono le sole poste di danno liquidabili iure proprio alla vittima di lesioni mortali (con esclusione, quindi, della rilevanza in sé e per sé dell’evento morte a fini risarcitori, v., ex multis, Cass. civ., n. 2134/2000), a condizione che il decesso non sia immediato ma avvenga dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni.
41. Va detto che tale categoria di danni ha conosciuto più di un’incertezza sul piano definitorio, venendo talvolta inquadrata come danno biologico terminale o come danno catastrofale a matrice morale, senza che, secondo quanto osservato dalle Sezioni Unite, a tali categorizzazioni corrispondessero autentiche differenze sostanziali o «differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni».
42. Ciò posto, il Tribunale, ai fini della liquidazione dei c.d. danni terminali sofferti da Omissis, viste le Tabelle del Tribunale di Milano del 2018, ritiene equo procedere nel modo di seguito illustrato:
 

  • tenendo conto dell’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze gemelle Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972-3-4-5, oltre alla citata n. 15350/2015), si aderisce alla definizione omnicomprensiva del “danno terminale”, tale da ricomprendere al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente. Onde evitare il pericolo di duplicazione di medesime poste di pregiudizio, la categoria del danno terminale deve intendersi, dunque, comprensiva dei pregiudizi variamente definiti come danno biologico terminale, da lucida agonia o morale catastrofale. Si evidenzia che la liquidazione del danno terminale, proprio in quanto comprensiva di ogni voce di pregiudizio non patrimoniale patita in quel lasso di tempo, esclude la separata liquidazione del danno biologico temporaneo “ordinario”, da intendersi quindi assorbita;
  • ancorché si condivida il fatto che la stessa definizione (terminale) esclude che il danno possa protrarsi per un tempo esteso, si ritiene che, nel caso di specie, la durata debba essere individuata nel periodo compreso fra la diagnosi di mesotelioma pleurico (dicembre 2011) e la morte (1.6.2012), benché superiore al limite massimo convenzionalmente fissato nelle Tabelle in 100 giorni. Essendo, infatti, la morte intervenuta poco tempo dopo il raggiungimento di tale limite convenzionale, e per di più all’esito di un costante peggioramento delle condizioni psico-fisiche della vittima (si veda la documentazione sanitaria in atti), non pare equo, alla luce delle peculiari e concrete caratteristiche del caso di specie, arrestare il danno terminale al 10 marzo 2012, per tornare a risarcire fino al giorno della morte il solo danno biologico temporaneo ordinario.
    In altri termini, nel caso di specie, la documentazione sanitaria in atti, valutata unitamente ai memoriali dei due figli, induce a ritenere provato, sia pure in via presuntiva, che a seguito della diagnosi di una patologia neoplástica a prognosi infausta nel dicembre 2011, l’estrema sofferenza psicologica del … scaturente dalla consapevolezza dell’inevitabile approssimarsi della propria morte si sia protratta fino al decesso. Di conseguenza, si ritiene di applicare anche ai giorni compresi fra l’11 marzo 2012 e il decesso, il valore monetario assegnato dalle Tabelle di Milano al 100° giorno di sofferenza;
  • ritenendosi che nel caso di specie la percezione della fine sia intervenuta nel dicembre 2011, e che in tale momento sia, perciò, sorto il danno terminale, per il precedente periodo compreso fra il luglio 2010 (diagnosi, ex post errata, di adenocarcinoma polmonare) e il novembre 2011, deve liquidarsi il danno biologico temporaneo “ordinario”, applicando al valore monetario “medio” di liquidazione corrispondente ad un giorno di inabilità al 60% (vedi CTU), l’aumento personalizzato del 50% in ragione dell’intensità delle sofferenze psico-fisiche subite, della radicalità dello sconvolgimento delle abitudini di vita e degli aspetti relazionali, dell’invasività degli accertamenti diagnostici e della penosità delle purtroppo inutili terapie praticate. In altri termini, si ritiene raggiunta la prova, sia pure in via presuntiva, che la lesione dell’integrità psico-fisica nella misura del 60% abbia inciso nel caso di specie in misura significativamente superiore ai termini “standardizzabili” (giorni 518x€ 88,50= € 45.843,00);
  • per i primi tre giorni di danno terminale (nel dicembre 2011), si ritiene equo, alla luce dell’intensità della sofferenza terminale di … come emergente dai memoriali dei figli e dalla documentazione sanitaria in atti, liquidare il danno nella somma di € 15.000,00;
  • per i medesimi motivi, si ritiene di dover applicare per il periodo compreso fra il 4° giorno di sofferenza terminale e la morte, l’aumento del 50% in via di personalizzazione [€ 53.234,00 + (€ 98 x 82 giorni=) € 8.036,00 = € 61.270,00 + 50% = € 91.905,00].
     

43. Di conseguenza, il danno non patrimoniale complessivamente liquidabile iure proprio alla vittima, ammonta alla somma di € 152.748,00, che devalutata alla data di manifestazione della patologia (luglio 2010) e rivalutata alla data della presente pronuncia, risulta pari a € 166.470,34, da maggiorare degli accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo, e da corrispondere ai tre ricorrenti in proporzione alla rispettiva quota ereditaria.
44. Non rilevano nel caso di specie le prestazioni di legge erogate dall’I.N.A.I.L. al defunto e alla vedova, attesa la diversa natura dei danni indennizzati dall’Istituto rispetto a quelli risarciti nel presente processo.
45. In ragione della notevole e indubbia complessità delle plurime questioni interpretative poste dalla presente controversia, si compensano nella misura di 1/4 le spese di lite, condannando le parti convenute, in solido tra loro, a rifondere ai ricorrenti i restanti 3/4, liquidati come in dispositivo e da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario.
46. Parimenti, le spese delle due CTU medico-legali, liquidate come da separati decreti, vengono poste in via definitiva, per 1/4 a carico dei ricorrenti, e per 3/4 a carico delle parti convenute in solido tra loro.
 

P.Q.M.


il Tribunale di Firenze, in composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie di primo grado, definitivamente pronunciando, disattesa e reietta o assorbita ogni diversa e/o ulteriore domanda, deduzione ed eccezione
47. accerta e dichiara la responsabilità civile, ex artt. 2087, 2043 c.c., delle parti convenute, in solido tra loro, per la malattia professionale che ha condotto a morte il lavoratore … in data 1.6.2012;
48. per l’effetto, condanna le parti convenute, in solido tra loro, a corrispondere a ciascuno dei ricorrenti, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio, la somma di € 212.129,29, oltre accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo;
49. per l’effetto, condanna le parti convenute, in solido tra loro, a corrispondere ai ricorrenti, in qualità di eredi e a ciascuno in proporzione alla rispettiva quota ereditaria, a titolo di danno non patrimoniale sofferto dal de cuius, la somma complessiva di 166.470,34, oltre accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo;
50. compensa per 1/4 le spese di lite, e condanna le parti convenute, in solido tra loro, a rifondere ai ricorrenti i restanti 3/4, che, ex D.M. n. 55/14 e 37/18, liquida complessivamente in € 18.940,50, oltre 15% per spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge;
51. pone le spese delle due CTU medico-legali, liquidate come da separati decreti, definitivamente a carico per 1/4 dei ricorrenti e per 3/4 delle parti convenute, in solido tra loro;
52. motivazione in 60 giorni.
Firenze, 18 marzo 2019
Il Giudice del Lavoro
Carlotta Consani


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Tribunale di Firenze, Sez. Lav., 25 marzo 2019, n. 290 – Maxi risarcimento per il decesso a causa dell’amianto di un lavoratore dell’ospedale di Careggi


Proc. n. 76/2014 Ruolo Generale Lavoro


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Sezione Lavoro


Il Tribunale di Firenze, in composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie di primo grado, nella persona del giudice dott.ssa Carlotta Consani, all’udienza del 18 marzo 2019, nella causa di primo grado iscritta al n. 76 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2014, pendente
TRA
… elettivamente domiciliati in Firenze alla Via Curtatone n. 2 presso lo studio dell’Avv. Pietro L. Frisani che li rappresenta e difende, come da mandati in calce al ricorso introduttivo del presente giudizio;
RICORRENTE
E
REGIONE TOSCANA, in persona del l.r. pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti. … ed … elettivamente domiciliata in Firenze alla Piazza dell’Unità d’Italia n. 1 presso l’Avvocatura Regionale, come da mandato in calce al ricorso notificato;
RESISTENTE
E
LA GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D, in persona del Commissario Liquidatore prò tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Omissis ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Firenze al Lungarno Vespucci n. 8, come da procura in calce alla copia notificata dell’atto introduttivo;
RESISTENTE
ha pronunciato la seguente
 

SENTENZA


FattoDiritto

1. Con ricorso depositato il 13.1.2014, Omissis hanno convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie, la REGIONE TOSCANA e LA GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D per ivi sentir accertare la responsabilità in via solidale e/o concorrente della Gestione Liquidatoria della cessata U.S.L. 10/D di Firenze e della Regione Toscana in relazione ai danni dagli stessi subiti sia in proprio che in qualità di eredi di … deceduto l’1.6.2012 a causa di mesotelioma pleurico contratto in conseguenza dell’esposizione all’amianto nei luoghi di lavoro della lavanderia e delle due centrali termiche di Careggi; con vittoria di spese, diritti e onorari di giudizio da distrarsi in favore del procuratore antistatario.

2. A fondamento delle conclusioni di merito rassegnate, i ricorrenti hanno dedotto che … è stato dipendente dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova (poi Ospedale di Careggi), prima (18.1.1965-16.9.1980), e della cessata USL 10/D, poi (17.9.1980- 1.1.1994), lavorando con mansioni di lavandaio in un primo periodo (18.1.1965-31.3.1977) e con mansioni di fuochista in un secondo periodo (1.4.1977-1.1.1994); che nel luglio del 2010 è stato diagnosticato a un adenocarcinoma polmonare e nel dicembre 2011 un mesotelioma pleurico sinistro; che il mesotelioma è stato causato dall’esposizione all’amianto nei luoghi di lavoro costituiti dalla lavanderia e dalle due centrali termiche di Careggi; che l’organizzazione sanitaria fiorentina ha riconosciuto l’esposizione ad amianto di … nel corso della sua attività lavorativa (v. la lettera del 22/5/2012 del Responsabile dell’U.F. Prevenzione Igiene e Sicurezza luoghi di lavoro dell’Azienda Sanitaria di Firenze sub doc. 6 fase, ric.) e che l’I.N.A.I.L. in data 19/3/2012 ha riconosciuto la malattia professionale di … (v. doc. 5 fase. ric.).
3. LA GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D si è costituita in giudizio chiedendo, nel merito, in tesi, di accertare che non esiste responsabilità del Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D e che nessuna somma a titolo di risarcimento danno è dovuta dal Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D nell’ipotesi che sia accertata una responsabilità della cessata USL 10D, che sia valutata in via equitativa la somma di giustizia dovuta dal Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D a … e … alla luce dei criteri liquidativi indicati dal giudice di legittimità e detratta la somma complessivamente dovuta a titolo di indennità dall’I.N.A.I.L., pagata od ancora non pagata; in ogni caso, con vittoria delle spese legali.
4. La Regione Toscana si è costituita in giudizio eccependo, in via preliminare, l’incompetenza del giudice del lavoro a favore del giudice civile ordinario; il proprio difetto di legittimazione passiva ex L.R. TOSCANA n. 75/1997; nel merito, chiedendo di respingere tutte le richieste dei ricorrenti in quanto inammissibili e/o infondate; con vittoria di spese e compensi professionali.
5. La causa è stata istruita con prove documentali, orali e due CTU medico-legali, e all’udienza del 18 marzo 2019 è stata discussa e decisa come da dispositivo pubblicamente letto con fissazione del termine di 60 giorni per il deposito della motivazione ex art. 429 c.p.c.
6. All’esito dell’istruttoria espletata, il Tribunale ritiene che il ricorso sia fondato nei termini di seguito esposti e che, pertanto, in detti termini debba trovare accoglimento.
7. Preliminarmente, il Tribunale deve dare atto che la GESTIONE STRALCIO/DI LIQUIDAZIONE DELLA CESSATA USL 10/D a pag. 3 della propria comparsa di costituzione e risposta ha affermato testualmente che ‘non contesta la propria legittimazione passiva né la legittimazione attiva dei ricorrenti alla domanda proposta”.
8. Pertanto, considerato che, come, affermato dalla Sezioni Unite della S.C. (n. 2951/2016), “La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto. ”, deve ritenersi sussistente la legittimazione passiva della Gestione Liquidatoria anche per il periodo anteriore al 1979 (solo in sede di note conclusionali autorizzate del 20.10.2017, e, perciò, inutilmente stante il già avvenuto riconoscimento, il Commissario Liquidatore della cessata USL 10/D ha eccepito che i debiti nati prima al 1979 sarebbero riferibili non alle nuove Unità Sanitarie Locali nate con la 1. n. 833/1978 e con i D.P.R. del 1979 ma ai Comuni). 
9. Peraltro, deve anticiparsi che, come accertato dal CTU incaricato in sede di rinnovo dell’accertamento peritale, dott. A. , con conclusioni che il Tribunale condivide, il è stato affetto solo da mesotelioma pleurico manifestatosi clinicamente nel luglio 2010 ma con inizio del proprio cammino patogenetico in un momento imprecisabile dell’inizio della propria attività lavorativa (comunque nei decenni pregressi): pertanto, non essendo possibile determinare se l’inizio del processo patogenetico si collochi tra il 1965 e il 1979 o dopo il 1979 l’accoglimento dell’eccezione, posto che nessuna parte ha chiesto l’autorizzazione alla chiamata in causa del Comune ex art. 420 co. 9 c.p.c., nulla avrebbe mutato rispetto alla condanna delle due sole parti convenute in giudizio ex art. 2055 c.c.
10. Sempre in via preliminare, ritiene il Giudicante che tutte le domande risarcitorie spiegate dai ricorrenti, e, quindi, sia, quelle proposte iure hereditario, sia, quelle proposte iure proprio, debbano essere trattate nelle forme del processo del lavoro ex art. 409 e ss. c.p.c. (trattasi di questione di rito e non di competenza), deponendo in tal senso, sia, ragioni di economia processuale e certezza del diritto scaturenti circostanza che tutte le pretese azionate nel presente giudizio implicano l’accertamento del medesimo fatto storico, sia, il dettato dell’art. 40 c.p.c. (v. Cass. civ., sez. lav., n. 18503/2016).
11. Sempre in via preliminare, deve essere rigettata, in quanto infondata, l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata da Regione Toscana.
12. Come affermato dalla S.C. di Cassazione (v. Cass. civ., sez. III, n. 19133 del 23/09/2004), infatti, “Per effetto della soppressione delle Unità sanitarie locali e della conseguente istituzione delle Aziende Unità Sanitarie locali (aventi natura di enti strumentali della Regione), si è realizzata una fattispecie di successione “ex lege” delle Regioni in tutti i rapporti obbligatori facenti capo alle ormai estinte U.S.L., con conseguente esclusione di ogni ipotesi di successione “in universum ius” delle A.S.L. alle preesistenti U.S.L.; poiché, però, tale successione delle Regioni è caratterizzata da una procedura di liquidazione, che è affidata ad un’apposita gestione stralcio, la quale è strutturalmente e finalisticamente diversa dall’ente subentrante ed individuata nell’ufficio responsabile della medesima unità sanitaria locale a cui si riferivano i debiti e i crediti inerenti alle gestioni pregresse, usufruisce della soggettività dell’ente soppresso (che viene prolungata durante la fase liquidatoria), ed è rappresentata dal direttore generale della nuova azienda sanitaria nella veste di commissario liquidatore, il processo instaurato nei confronti di una U.S.L. prima della sua soppressione prosegue tra le parti originarie – salva l’ipotesi di intervento o chiamata in causa della Regione nella sua veste di successore a titolo particolare -, con le relative conseguenze in ordine alla legittimazione attiva e passiva di detto organo dì rappresentanza della gestione stralcio ai fini della proposizione delle impugnazioni.” (si evidenzia come la S.C. abbia ritenuto ammissibile l’appello proposto dalla Regione e dal commissario liquidatore).
13. Nel merito, deve, innanzitutto, ritenersi pienamente provato, alla luce delle risultanze dei documenti in atti (v., in particolare, doc. 6 fase, rie.) e delle testimonianze assunte, che … sia stato esposto all’amianto durante il periodo lavorato alle dipendenze dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova (poi Ospedale di Careggi) dal 18.1.1965 al 16.9.1980, nonché a quelle della cessata USL 10/D di Firenze dal 17.9.1980 al 1.1.1994, durante il quale egli ha lavorato con mansioni di lavandaio dal 18.1.1965 al 31.3.1977 e di fuochista dal 1.4.1977 al 1.1.1994.
14. Parimenti, risulta raggiunta la pienezza della prova in ordine alla omessa fornitura da parte dell’organizzazione sanitaria pubblica datrice di dispositivi di protezione individuale (sulla cui effettiva e corretta utilizzazione il datore di lavoro avrebbe poi avuto l’obbligo di vigilare sanzionando le relative inosservanze), nonché in ordine alla radicale mancanza di qualunque tipo di informazione e formazione (addirittura fino ad almeno il 2001) rivolta ai lavoratori sui rischi connessi all’esposizione all’amianto e sulle misure di prevenzione/procedure di sicurezza da adottare per proteggersi da essi.
15. Il teste Omissis , collega del … presso la centrale termica dal 1977/1978 fino al pensionamento del de cuius, e rispetto al quale non sono emersi elementi che ne inficino l’attendibilità e la credibilità, ha riferito che: quale fuochista, effettuava servizi di controllo accensione, alimentazione, controllo acqua e pressione, interventi di riparazione; quando i cordini di amianto erano consumati, i fuochisti fermavano la pompa d’acqua calda e li sostituivano; le caldaie all’interno erano rivestite di amianto così come d’amianto erano anche le guarnizioni e le fasce intorno alle tubazioni; nello svolgimento delle mansioni presso le centrali termiche di Careggi i fuochisti prendevano a mani nude nastri e guaine utilizzati per fasciare tubazioni e cavi, rivestimenti isolanti di tubazioni, corde, guarnizioni etc., tutte parti nelle quali era presente l’amianto; fra gli anni ’80 e ’90, una delle due caldaie fu aperta e fu tolto da squadre esterne tutto quello che, di amianto, poteva essere eliminato, ma ancora nel 2000, quando il teste andò in pensione, i lavori erano in fase di stallo perché di fatto l’amianto era ovunque, sì da rendere necessario sostituire la caldaia; fino al pensionamento del teste (2000), le caldaie rimasero le stesse: una sempre aperta e l’altra in funzione; nessuno disse ai fuochisti di adottare delle precauzioni durante i predetti interventi delle squadre esterne, tanto che furono lasciati andare e venire dalla sala caldaie, che attraversavano per arrivare allo spogliatoio, senza protezioni; i fuochisti hanno continuato a lavorare alla caldaia funzionante che era accanto a quella aperta e piena di amianto; sulla caldaia funzionante non furono fatti interventi relativi all’amianto, e fu sostituito un solo tubo; l’altra caldaia, avendo molti tubi da sostituire, venne aperta e lasciata così; ai fuochisti non fu fornita alcuna informazione sui rischi connessi all’esposizione all’amianto, né vi erano procedure di formazione e sicurezza specifiche per gli operai specializzati che svolgevano le mansioni di fuochista.
16. Il teste Omissis dipendente dal 1988 della USL 10/D e addetto al settore della Prevenzione, Igiene e Sicurezza del Lavoro, precisato di essere venuto a conoscenza del caso specifico nel 2015, quando gli è stato chiesto dal Direttore del Dipartimento di verificare quello che avevamo in archivio circa la presenza di amianto e la storia lavorativa del signor . ha confermato che il … è stato addetto alla lavanderia e successivamente alle caldaie; che, quale addetto alla lavanderia, svolgeva anche alcuni compiti di manutenzione; che alla centrale termica faceva il conduttore di caldaie, compresi alcuni compiti di manutenzione.
Il teste ha, poi, riferito, non disponendo di documentazione al riguardo, di poter solo ipotizzare che l’amianto fosse presente nei vecchi locali della lavanderia, e ciò in ragione del fatto che all’epoca tale materiale era di uso comune nelle lavorazioni a caldo, come coibente delle tubazioni. Con riguardo, invece, ai nuovi locali della lavanderia, il teste ha dichiarato di disporre di documentazione circa la presenza di amianto su alcune tubazioni, anche lì come isolante che fasciava le tubazioni, e in una caldaia, precisando che l’amianto in lavanderia fu tolto con un piano di bonifica nel 1992.
Per quanto riguarda la centrale termica (il … dal 1977 ha lavorato prevalentemente nella centrale di San Luca), il teste ha confermato la presenza di amianto all’interno della caldaia, nonché di amianto mescolato a malta cementizia sulla piattaforma su cui appoggiava la caldaia, e, ancora, di tubazioni che partivano dalla caldaia e correvano nei sotterranei di Careggi, in parte coibentate con amianto. Al riguardo, il teste ha dichiarato di non aver reperito documenti che attestino piani di smaltimento relativi alle tubazioni, mentre il piano di smaltimento di una caldaia e della sua piattaforma è stato attuato nel 2011 quando la centrale fu demolita per costruirne una nuova. 
Quanto agli interventi della S.I.R.A.M. di cui al doc. 4 della Gestione Liquidatoria (eseguiti a seguito dell’ispezione avvenuta nel 1983 e di cui al doc. 3 della Gestione Liquidatoria), il teste ha dichiarato di riconoscerlo, precisando che circa tali interventi ha “trovato solo queste indicazioni comportamentali.” (ossia quelle di cui al doc. 4). Il teste ha, inoltre, affermato quanto segue: “Non ho nessuna informazione se il personale addetto sia stato informato adeguatamente e tenuto ad usare le protezioni. Non ho trovato documentazione che confermasse la presenza effettiva delle protezioni”.
17. Al riguardo, deve, dunque, evidenziarsi che, intanto, il doc. 3 della Gestione Liquidatoria comprova che ancora nel 1983, venivano lasciati pezzi di amianto, residui di lavorazioni di manutenzione, sul pavimento del locale caldaie, e che l’adozione di precauzioni durante la manipolazione dell’amianto (consistenti nell’indossare maschere idonee e tute del tipo monouso, inumidire i pezzi di amianto prima di manipolarli in qualunque modo, inumidire e chiudere bene in sacchi di plastica i residui di amianto provenienti da lavorazioni) è prospettata in tale documento quale una proposta di modifica, così comprovando che fino ad allora non erano affatto prescritte e in uso simili modalità operative. In tale documento, sempre sub specie di proposta di modifica, si raccomanda di limitare l’uso dell’amianto all’indispensabile: ergo non corrisponde al vero che dal 1984 l’uso dell’amianto nelle centrali termiche sia cessato (vedi capitolato di prova orale della Gestione Liquidatoria).
18. Quanto al doc. 4 della Gestione Liquidatoria (“interventi di adeguamento delle centrali termiche di Careggi richiesti dal Servizio di Sicurezza”), deve, invece, osservarsi come in esso si affermi che l’uso dell’amianto è stato “radicalmente ridotto” (e, quindi, non eliminato) nelle due centrali termiche per effetto del ripannellamento dei generatori di vapore con prodotti in fibre ceramiche.
19. Che l’uso dell’amianto, anche nelle centrali termiche, non sia affatto cessato nel 1984 (vedi, invece, il cap. 4 della Gestione Liquidatoria) trova conferma anche nel fatto che sempre in detto doc. 4 si afferma che per quegli usi per i quali è ancora indispensabile impiegare l’amianto, sono disponibili in centrale maschere e tute del tipo monouso. Ma sul punto si è visto che il teste non è stato in grado di confermare né che questi D.P.I. fossero effettivamente presenti nelle centrali, né che i lavoratori fossero stati resi edotti della doverosità del loro utilizzo alla luce dei rischi connessi all’esposizione all’amianto. Né, in ogni caso, si dispone della prova che il datore di lavoro vigilasse sulla puntuale osservanza di queste misure di protezione, quand’anche esistenti.
20. Ancora, il teste …, collega del de cuius presso la centrale termica di San Luca, ma qualche volta anche presso quella universitaria, nonché, occasionalmente, anche nel giro di controllo delle sotto-centrali  per Careggi, a far data dalla primavera del 1985 e fino al pensionamento del anche rispetto a tale teste non sono emersi elementi che ne inficino l’attendibilità e la credibilità), ha confermato che fra le loro mansioni vi erano le manutenzioni di emergenza, che le caldaie erano coibentate con amianto, così come tubi e guarnizioni; e che dovevano maneggiare nastri e guaine utilizzati per fasciare tubazioni e cavi, rivestimenti isolanti di tubazioni, corde, guarnizioni etc., tutte parti nelle quali era presente l’amianto.
Il teste … ha, poi, confermato che le operazioni di rimozione dell’amianto iniziarono negli anni ’90 e che si conclusero nel 2011 o 2012 quando la centrale fu definitivamente distrutta e ricostruita. La centrale universitaria, invece, spiega il teste, subì un intervento parziale e rimase per molto tempo spenta perché i lavori erano in corso di esecuzione. Anche il teste …, come il teste …, ha confermato che una delle due caldaie era funzionante e lavorava nei casi di emergenza e nell’inverno quando c’era bisogno di più vapore, mentre l’altra era lì accanto aperta. Il teste ha confermato, altresì, che il personale doveva attraversare la sala caldaie anche quando le caldaie non funzionavano per accedere a spogliatoio, bagni e docce.
Quanto ai dispositivi di protezione individuale, il … ha negato che essi siano stati forniti ai lavoratori, fatta eccezione per la messa a disposizione di una maschera per tutti in un armadietto (“Guanti mai. Lavoravamo a mani nudeDa metà degli anni 90 la ditta di manutenzione ci dava occasionalmente dei guanti. A me hanno dato le mascherine bianche tipo quelle che vengono usate per proteggersi dallo smog, occasionalmente, e solo perché le ho chieste io. Ma per l’amianto servivano a poco perché ci passa la polvere. ”). Infine, il teste ha riferito la totale carenza di qualunque informazione da parte del datore di lavoro sui rischi connessi all’esposizione all’amianto, così come l’assenza di procedure di sicurezza specifiche, precisando che al … fu fatto seguire solo il corso di formazione sull’antincendio.
21. Le deposizioni dei testi … e … hanno, poi, trovato puntuale riscontro anche nella testimonianza di … (v. verbale udienza del 16.2.2016), conduttore di generatori a vapore all’ospedale di Careggi, presso la centrale termica dell’università dal 1976 al 2001 e anch’egli risultato indifferente all’esito del giudizio (“Ero in turno insieme a lui che stava prevalentemente nella centrale di San Luca.”). In particolare, si evidenzia come il teste abbia ribadito che almeno fino al 2001 non esisteva alcun protocollo né venivano fornite informazioni sui rischi di esposizione all’amianto.
22. Per quanto concerne il profilo soggettivo della responsabilità datoriale, premesso che il datare di lavoro, già in forza dell’art. 2087 c.c. costituente norma di chiusura del sistema, è sempre tenuto ad attivarsi per conoscere le situazioni di rischio e le fonti di pericolosità dell’attività lavorativa espletata, in base alle migliori conoscenze tecniche scientifiche del momento storico, la S.C. di Cassazione è da tempo consolidata nel l’affermare che “la conoscenza della nocività dell’amianto per la salute risale all’inizio del 1900 (se ne parla già nel r.d. 14.6.1909, n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri; idem, nel d.lgt. 6/81916, n.1136; e nel r.d.1720/1936). Secondo un’acquisizione, divenuta patrimonio comune della giurisprudenza di merito e di legittimità, la conoscenza della pericolosità dell’esposizione all’amianto per il rischio di mesotelioma risale almeno ai primi anni sessanta, sia in ambito scientifico che imprenditoriale (tanto che, in relazione a tale ultimo ambito, sì cita la nota iniziativa delle ferrovie inglesi di bonificare le carrozze già nel 1968; cfr. Cass., sez IV, 43786/2010 e Cass., sez IV, n. 38991/2010). Mentre l’asbestosi – pure essa una malattia mortale o comunque produttrice di una significativa abbreviazione della vita – è stata inserita nell’elenco tipizzato delle malattie professionali dalla legge 455/1943. […] In relazione alla medesima obiezione cronologica riferita all’epoca della conoscenza della nocività dell’amianto, andava poi pure tenuto conto del risalente e consolidato orientamento di legittimità (apartire da Cass. 27.6.1979; 14.4.1994, est. Battisti; 6858/90; 988/2003; 37432/2003; 988/2003; 37432/2003; 8204/2003; 7630/2005; Cass., sez IV, 43786/2010 e Cass., sez IV, 38991/2010) secondo il quale l’accertamento di questa epoca non rileva ai fini della responsabilità del datore per mesotelioma pleurico, perché le misure protettive da adottare sarebbero state comunque quelle già prescritte dall’ordinamento per l’asbestosi (malattia anch’essa mortale e comunque gravemente invalidante) ossia quelle prescritte per tutelare il medesimo bene salute offeso (dall’una o dall’altra malattia). Ciò in quanto, ai fini del nesso causale tra colpa ed evento, quest’ultimo va considerato come grave danno alla salute del lavoratore e non inteso come specifico evento concretamente poi verificatosi (Cass., IV, 5919/1991, Rezza; Cass., IV, 5037/2000, Camposano; Cass., IV, 4675/07 Bartalini; Cass. IV, 21513/09, Stocchi; Cass., sez IV, 43786/2010 e Cass., sez IV, 38991/2010).” (così, Cass. civ., sez. lav., n. 18503/2016). 
23. Nello stesso senso si veda anche Cass. civ., sez. lav., n. 8204/2003, che, si occupa di un caso di mesotelioma causato dall’amianto, manifestatosi nel 1990, con esposizione a rischio accertata tra il 1968 e il 1983, e nella quale la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi di un lavoratore, già addetto alla lavorazione dell’amianto, deceduto per mesotelioma, ritenendo congruamente motivato il giudizio secondo la quale il rispetto di tutte le prescrizioni cautelative possibili all’epoca dello svolgimento dell’attività lavorativa, ed in particolare di quelle concernenti la riduzione di fumi o polveri nocive e comunque dei rischi, avrebbe, alla stregua di un giudizio probabilistico, ridotto il rischio di assumere la dose innescante e quindi di contrarre la malattia (v., ad esempio, art. 21 D.P.R. n. 303/56, normativa concepita per limitare l’esposizione dei lavoratori alle polveri tossiche e nocive “di qualsiasi specie ”, e, quindi, applicabile anche alle fibre c.d. ultra fini e invisibili).
24. Ancora, in Cass. civ., sez. lav., n. 9238/2011, si legge che “I giudici di appello hanno, infatti, correttamente osservato come già al tempo dell’esposizione del lavoratore al rìschio morbigeno era nota la intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto impiegato nelle lavorazioni, tanto che l’uso delle stesse era sottoposto a particolari cautele indipendentemente dalla concentrazione per centimetro cubo. Tale constatazione trova conferma nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale ha reiteratamente osservato (v. ad. es. già Cass. n. 4721/1998) come la pericolosità dell’amianto fosse sicuramente nota da epoca ben anteriore al 1970, per come dimostra un complesso significativo di disposizioni normative in tal senso rilevanti, quali, fra le altre, il D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21 il quale stabiliva che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualsiasi specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti a impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente, precisando, altresì, che “le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione” (e cioè, devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri stesse), o ancora, nell’ambito del medesimo testo, l’art. 9, che prevedeva il ricambio di aria, l’art. 15, che prevedeva che, anche fuori dell’orario di lavoro, si dovesse ridurre al minimo il sollevamento delle polveri e, proprio a tal fine, prescriveva l’uso di aspiratori, l’art. 18, che proibiva l’accumulo di sostanze nocive, l’art. 19, che imponeva dì adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 25, che prescriveva, quando potesse esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori fossero forniti di apparecchi dì protezione. Correttamente, pertanto, la corte territoriale ha ritenuto che, in un ambiente di lavoro esposto al rischio del sollevamento delle polveri, la legge già esistente all’epoca imponeva di impedire che ciò avvenisse, facendo onere al datore di lavoro di tener conto della natura (e della specifica pericolosità) delle polveri al fine di adottare tutte le misure idonee a ridurre il rischio da contatto.”.
25. Per giunta, premesso che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. non è limitata alla violazione di norme d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa, invece, nell’attuale sistema italiano, supportato a livello costituzionale, alla cura del lavoratore attraverso l’adozione, da parte del datore di lavoro, nel rispetto del suo diritto di libertà d’impresa, di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità, pur valutata in concreto, delle conoscenze, si rivelino idonee, secondo l’id quod plerumque accidit, a tutelare l’integrità psicofisica di colui che metta a disposizione della controparte la propria energia vitale (v. ad es. Cass., 23 maggio 2003, n. 8204; 29 dicembre 1998, n. 12863; 8 aprile 1995, n. 4078), nel caso di specie, ai fini della valutazione della sussistenza e del grado della colpa datoriale, non può non valorizzarsi il fatto che il datore di lavoro non fosse costituito da una piccola impresa che si dibatte in un turbinio di leggi da cui trarre indicazioni comportamentali, ma da una organizzazione sanitaria pubblica, come tale avente quale fine istituzionale quello della prevenzione e della tutela salute della generalità dei consociati, a cominciare da quella dei propri dipendenti; e rispetto alla quale, pertanto, non è configurabile alcuna causa che valga ad escluderne o anche solo ad attenuarne la responsabilità per non aver rilevato tempestivamente il serio e non ipotetico pericolo incombente, costituito dalle fibre d’amianto diffuse nei locali della lavanderia e delle centrali termiche, adottando rimedi che la comunità scientifica intemazionale aveva ormai allo studio, dal momento che, come detto, erano ben noti gli allarmi manifestati dalla scienza medica sui nocivi effetti incidenti sul bene primario della salute (che la Costituzione e il codice garantiscono) in caso di situazioni non occasionate da congiunture sporadiche o transitorie, ma avvalorate da attività continuative, contigue alle fonti di diffusione delle particelle di asbesto (v. Cass. civ., sez. lav., n. 644/2005).
26. Venendo, dunque, a trattare del nesso di causalità fra la malattia che ha cagionato il decesso di …, la comprovata esposizione dello stesso all’amianto nel lungo periodo lavorato presso l’organizzazione sanitaria pubblica, deve darsi atto che il CTU incaricato, dott. Omissis, all’esito delle operazioni peritali effettuate, è pervenuto alle seguenti valutazioni medico-legali (v. relazione tecnica del 10.2.2019):
❖ era affetto al momento del decesso da mesotelioma pleurico coinvolgente il contiguo parenchima polmonare e metastatizzante ad alcuni linfonodi paraortici e a livello costale; a livello cardiaco esiti di IMA (1996 e 2002) trattati con angioplastica;
❖ … non fu affetto da duplicità neoplastica ma solo da mesotelioma pleurico manifestatosi clinicamente nel luglio 2010, ma con inizio del proprio cammino patogenetico in un momento imprecisabile dell’inizio della propria attività lavorativa (comunaue nei decenni pregressi);
❖ il decesso del … è stato determinato dal mesotelioma pleurico mentre non risultano documentate concause efficienti nell’incidere sull’evento morte;
❖ ha riportato, a termini di responsabilità civile, un’invalidità del 60% con decorrenza luglio 2010 (manifestazione della grave sintomatologia respiratoria connessa al mesotelioma), dell’80% con decorrenza dal 3.4.2012 e del 100% con decorrenza dal 9.5.2012 fino al decesso.
27. Ciò posto, deve rilevarsi che la Gestione Liquidatoria, nel costituirsi in giudizio, ha eccepito che, come risulta dal libretto di lavoro del … (v. doc. 2 fase, rie.), questi dal 1952 ha lavorato come aiuto operaio agricolo, e, dal 16.1.1956 al 18.1.1965 con piccole interruzioni, presso diverse filature pratesi quale filatore, e che, pertanto, tale mansioni hanno implicato esposizione all’amianto per il trasporto dei sacchi di juta riciclati quale aiuto operaio agricolo, nonché, quale filatore, per l’avvolgimento del filato sui fusi, per la pulizia delle macchine e per la cernita dei tessuti.
28. Orbene, a tale riguardo il dott. … , ha rilevato quanto segue: premesso che non si pone una questione di dose inducente/effetto indotto in quanto anche quantità irrisorie di fibre amiantifere sono idonee ad indurre la genesi del mesotelioma pleurico, nel caso di specie, mentre è risultata provata in giudizio in modo certo e in concreto, la presenza di componenti amiantifere coibentate e non negli ambienti di lavoro frequentati e nei materiali gestiti dal … presso l’organizzazione sanitaria pubblica convenuta; al contrario, con riguardo ai pregressi periodi lavorati come aiuto operaio agricolo e come filatore non è stata fornita nel presente giudizio alcuna prova diretta e concreta del fatto che il … sia stato effettivamente esposto a componenti amiantifere coibentate e non.
29. Nel presente giudizio, infatti, non è stato dimostrato, in concreto e con riguardo allo specifico caso, che il … usasse sacchi di juta sfilacciati piuttosto che integri, o che vi fossero fibre amiantifere diffuse nel materiale tessile e/o agricolo in essi contenuto, o, ancora, che nelle filature in cui egli ha lavorato, e, quindi, nei materiali per filature e/o nelle apparecchiature tessili vi fossero componenti amiantifere e che esse fossero non coibentate piuttosto che in condizioni confinate o in matrice compatta.
30. Ne deriva che l’esposizione all’amianto del … durante il precedente periodo lavorato nel settore agricolo e tessile può essere qualificata come possibile solo ed esclusivamente in base ai dati della letteratura scientifica, e, quindi, in astratto.
31. E, a parere del Giudicante, l’onere di fornire, invece, in concreto, una simile prova nel presente giudizio gravava sulla organizzazione sanitaria pubblica convenuta, trattandosi della eccezione di una causa, alternativa a quella dedotta dai ricorrenti, da sola sufficiente a provocare l’evento (i.e. la malattia).
32. Come è noto, del resto, “La disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del “più probabile che non”), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del “50% plus unum” (v., explurimis, Cass. civ., sez. 3, n. 15991 del 21/07/2011).
33. In altri termini, per consolidato orientamento del giudice di legittimità, (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. 3, n. 13214, del 26/07/2012), a fronte di una pluralità di possibili cause alternative, una di esse può legittimamente essere ritenuta idonea a costituire la causa effettiva in base al criterio del “più probabile che non”: l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice civile anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio.
34. Ed ecco che allora questo Giudice, nel caso di specie, ritiene che il complesso degli elementi probatori acquisiti nel presente giudizio induca univocamente a ritenere che, ancorché entrambi i periodi lavorativi (i.e. quello in ambito agricolo-tessile e quello in ambito ospedaliero) risultino potenzialmente idonei, sul piano eziologico, a innescare e sviluppare il processo patogenetico de quo, la causa effettiva del processo patogenetico sfociato nel mesotelioma pleurico che determinato il decesso di … debba essere individuata nell’esposizione all’amianto avvenuta nel periodo lavorato in ambito ospedaliero dal 1965 al 1993, in quanto “più probabile” rispetto alla causa alternativa prospettata da parte convenuta, dal momento che nel presente giudizio è stato direttamente accertato che il … nel predetto periodo è venuto concretamente e continuativamente a contatto, in assenza di dispositivi di protezione individuale, con fibre amiantifere anche non coibentate presenti negli ambienti di lavoro e nei materiali utilizzati, mentre l’esposizione ad amianto nel periodo lavorato quale operaio agricolo e tessile, pur astrattamente possibile alla luce dei dati della letteratura scientifica, è rimasta priva di qualunque specifico, puntuale e concreto riscontro in riferimento alla reali condizioni dei luoghi, degli ambienti, dei materiali, delle attrezzature con i quali venne effettivamente a contatto tra il 1952 e il gennaio 1965.
35. Le conclusioni cui è giunto il CTU, dott. A. , devono, dunque, essere condivise e poste alla base della presente pronuncia, essendo fondate sui dati obiettivi emersi nel corso dell’indagine peritale, valutati alla stregua di esatti criteri della scienza medico-legale e correttamente applicati alla fattispecie; esse sono inoltre sostenute da una motivazione dettagliata, esauriente e priva di vizi logici, anche per quanto concerne la replica alle osservazioni critiche dei consulenti di parte. 
36. Si precisa che il Tribunale ha disposto il rinnovo della CTU medico-legale, ritenendo che la prima CTU, anche all’esito dei chiarimenti fomiti dall’ausiliario tecnico per primo incaricato (v. elaborato del 3.8.2016 e integrazione del 26.6.2018), non fosse esaustiva, in particolare, sotto il profilo dell’indagine sul nesso di causalità materiale alla luce del periodo lavorato in ambito non sanitario, e dell’accertamento della patologia causa del decesso a fronte delle due diagnosi succedutesi.
37. Si deve, infine, trattare dell’accertamento e della liquidazione del danno non patrimoniale di cui i ricorrenti chiedono il ristoro nel presente giudizio, sia, iure proprio, sia, iure hereditario.
38. Con riguardo alla prima specie di danno, vi è da dire che esso si identifica nel danno da perdita del rapporto parentale e che il Tribunale, ai fini della sua liquidazione in via (necessariamente) equitativa, ritiene di dover fare applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano del 2018.
39. Considerato, dunque, che la condotta illecita datoriale appare integrare gli estremi di un delitto colposo (art. 589 c.p.), e tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, e, in particolare, dell’età della vittima (nato nel 1939), della vedova (nata nel 1938) e dei due figli (nati, l’una, nel 1965, l’altro, nel 1972) al momento del decesso, dell’intensità e qualità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto coniugale del deceduto con la moglie e il rapporto parentale con i due figli – non conviventi ma residenti nelle immediate vicinanze dei genitori – sì come risultanti dai memoriali sub docc. 16 e 17, nonché della estrema penosità del lungo e ingravescente periodo di malattia durante il quale gli odierni ricorrenti hanno assistito e accompagnato il loro congiunto fino alla morte, nella angosciante e disperante consapevolezza, almeno dal dicembre 2011, delle limitate prospettive terapeutiche e della conseguente prognosi infausta, si ritiene equo liquidare nella somma di € 200.000,00 il danno non patrimoniale da morte del congiunto subito da ciascuno dei ricorrenti, che devalutata alla data del decesso e rivalutata alla data della pronuncia, risulta pari a € 212.129,29, da maggiorare degli accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo.
40. Per quanto concerne, invece, il danno non patrimoniale azionato iure hereditario dai ricorrenti (e, quindi, liquidabile iure proprio alla vittima), deve rilevarsi come il Tribunale ritenga di dover aderire all’orientamento interpretativo sostenuto dalle Sezioni Unite della S.C. (Cass., Sez. Un.,, seni. n. 15350/2015), alla stregua del quale i così detti “danni terminali”, di fonte giurisprudenziale e cristallizzati dalla Suprema Corte sono le sole poste di danno liquidabili iure proprio alla vittima di lesioni mortali (con esclusione, quindi, della rilevanza in sé e per sé dell’evento morte a fini risarcitori, v., ex multis, Cass. civ., n. 2134/2000), a condizione che il decesso non sia immediato ma avvenga dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni.
41. Va detto che tale categoria di danni ha conosciuto più di un’incertezza sul piano definitorio, venendo talvolta inquadrata come danno biologico terminale o come danno catastrofale a matrice morale, senza che, secondo quanto osservato dalle Sezioni Unite, a tali categorizzazioni corrispondessero autentiche differenze sostanziali o «differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni».
42. Ciò posto, il Tribunale, ai fini della liquidazione dei c.d. danni terminali sofferti da Omissis, viste le Tabelle del Tribunale di Milano del 2018, ritiene equo procedere nel modo di seguito illustrato:
 

  • tenendo conto dell’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze gemelle Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972-3-4-5, oltre alla citata n. 15350/2015), si aderisce alla definizione omnicomprensiva del “danno terminale”, tale da ricomprendere al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente. Onde evitare il pericolo di duplicazione di medesime poste di pregiudizio, la categoria del danno terminale deve intendersi, dunque, comprensiva dei pregiudizi variamente definiti come danno biologico terminale, da lucida agonia o morale catastrofale. Si evidenzia che la liquidazione del danno terminale, proprio in quanto comprensiva di ogni voce di pregiudizio non patrimoniale patita in quel lasso di tempo, esclude la separata liquidazione del danno biologico temporaneo “ordinario”, da intendersi quindi assorbita;
  • ancorché si condivida il fatto che la stessa definizione (terminale) esclude che il danno possa protrarsi per un tempo esteso, si ritiene che, nel caso di specie, la durata debba essere individuata nel periodo compreso fra la diagnosi di mesotelioma pleurico (dicembre 2011) e la morte (1.6.2012), benché superiore al limite massimo convenzionalmente fissato nelle Tabelle in 100 giorni. Essendo, infatti, la morte intervenuta poco tempo dopo il raggiungimento di tale limite convenzionale, e per di più all’esito di un costante peggioramento delle condizioni psico-fisiche della vittima (si veda la documentazione sanitaria in atti), non pare equo, alla luce delle peculiari e concrete caratteristiche del caso di specie, arrestare il danno terminale al 10 marzo 2012, per tornare a risarcire fino al giorno della morte il solo danno biologico temporaneo ordinario.
    In altri termini, nel caso di specie, la documentazione sanitaria in atti, valutata unitamente ai memoriali dei due figli, induce a ritenere provato, sia pure in via presuntiva, che a seguito della diagnosi di una patologia neoplástica a prognosi infausta nel dicembre 2011, l’estrema sofferenza psicologica del … scaturente dalla consapevolezza dell’inevitabile approssimarsi della propria morte si sia protratta fino al decesso. Di conseguenza, si ritiene di applicare anche ai giorni compresi fra l’11 marzo 2012 e il decesso, il valore monetario assegnato dalle Tabelle di Milano al 100° giorno di sofferenza;
  • ritenendosi che nel caso di specie la percezione della fine sia intervenuta nel dicembre 2011, e che in tale momento sia, perciò, sorto il danno terminale, per il precedente periodo compreso fra il luglio 2010 (diagnosi, ex post errata, di adenocarcinoma polmonare) e il novembre 2011, deve liquidarsi il danno biologico temporaneo “ordinario”, applicando al valore monetario “medio” di liquidazione corrispondente ad un giorno di inabilità al 60% (vedi CTU), l’aumento personalizzato del 50% in ragione dell’intensità delle sofferenze psico-fisiche subite, della radicalità dello sconvolgimento delle abitudini di vita e degli aspetti relazionali, dell’invasività degli accertamenti diagnostici e della penosità delle purtroppo inutili terapie praticate. In altri termini, si ritiene raggiunta la prova, sia pure in via presuntiva, che la lesione dell’integrità psico-fisica nella misura del 60% abbia inciso nel caso di specie in misura significativamente superiore ai termini “standardizzabili” (giorni 518x€ 88,50= € 45.843,00);
  • per i primi tre giorni di danno terminale (nel dicembre 2011), si ritiene equo, alla luce dell’intensità della sofferenza terminale di … come emergente dai memoriali dei figli e dalla documentazione sanitaria in atti, liquidare il danno nella somma di € 15.000,00;
  • per i medesimi motivi, si ritiene di dover applicare per il periodo compreso fra il 4° giorno di sofferenza terminale e la morte, l’aumento del 50% in via di personalizzazione [€ 53.234,00 + (€ 98 x 82 giorni=) € 8.036,00 = € 61.270,00 + 50% = € 91.905,00].
     

43. Di conseguenza, il danno non patrimoniale complessivamente liquidabile iure proprio alla vittima, ammonta alla somma di € 152.748,00, che devalutata alla data di manifestazione della patologia (luglio 2010) e rivalutata alla data della presente pronuncia, risulta pari a € 166.470,34, da maggiorare degli accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo, e da corrispondere ai tre ricorrenti in proporzione alla rispettiva quota ereditaria.
44. Non rilevano nel caso di specie le prestazioni di legge erogate dall’I.N.A.I.L. al defunto e alla vedova, attesa la diversa natura dei danni indennizzati dall’Istituto rispetto a quelli risarciti nel presente processo.
45. In ragione della notevole e indubbia complessità delle plurime questioni interpretative poste dalla presente controversia, si compensano nella misura di 1/4 le spese di lite, condannando le parti convenute, in solido tra loro, a rifondere ai ricorrenti i restanti 3/4, liquidati come in dispositivo e da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario.
46. Parimenti, le spese delle due CTU medico-legali, liquidate come da separati decreti, vengono poste in via definitiva, per 1/4 a carico dei ricorrenti, e per 3/4 a carico delle parti convenute in solido tra loro.
 

P.Q.M.


il Tribunale di Firenze, in composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie di primo grado, definitivamente pronunciando, disattesa e reietta o assorbita ogni diversa e/o ulteriore domanda, deduzione ed eccezione
47. accerta e dichiara la responsabilità civile, ex artt. 2087, 2043 c.c., delle parti convenute, in solido tra loro, per la malattia professionale che ha condotto a morte il lavoratore … in data 1.6.2012;
48. per l’effetto, condanna le parti convenute, in solido tra loro, a corrispondere a ciascuno dei ricorrenti, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio, la somma di € 212.129,29, oltre accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo;
49. per l’effetto, condanna le parti convenute, in solido tra loro, a corrispondere ai ricorrenti, in qualità di eredi e a ciascuno in proporzione alla rispettiva quota ereditaria, a titolo di danno non patrimoniale sofferto dal de cuius, la somma complessiva di 166.470,34, oltre accessori di legge dalla data della presente pronuncia al saldo effettivo;
50. compensa per 1/4 le spese di lite, e condanna le parti convenute, in solido tra loro, a rifondere ai ricorrenti i restanti 3/4, che, ex D.M. n. 55/14 e 37/18, liquida complessivamente in € 18.940,50, oltre 15% per spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge;
51. pone le spese delle due CTU medico-legali, liquidate come da separati decreti, definitivamente a carico per 1/4 dei ricorrenti e per 3/4 delle parti convenute, in solido tra loro;
52. motivazione in 60 giorni.
Firenze, 18 marzo 2019
Il Giudice del Lavoro
Carlotta Consani


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