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Risarcimento

Operaio morto per amianto a Massa: condannata la Nuovo Pignone

Risarcimento di oltre un milione di euro ai familiari La Nuovo Pignone è stata condannata a risarcire di 1.146.926 di euro per danni ai due figli e ai due nipoti di un operaio, morto il 22 dicembre 2018, per mesotelioma pleurico polmonare. Secondo il giudice, in base a una consulenza tecnico-ambientale, l’operaio nel corso del suo impiego di saldatore dal 1965 al 1986 nello stabilimento della Nuovo Pignone di Massa (che produce da reattori a serbatoi) avrebbe lavorato a contatto con materiali contenenti amianto; inoltre ha svolto mansioni in condizioni ad alto rischio di inalazione di fibre di amianto in misura superiore al limite normativamente previsto. In particolare, secondo il dispositivo della sentenza emessa lo scorso 6 maggio, il dipendente avrebbe avuto un’esposizione superiore al limite previsto dalla normativa di 100 fibre di amianto per litro annue su una media di 8 ore di lavoro. L’operaio asarebbe stato esposto a 231 fibre litro annue dal 1965 al 1975, a 116 dal 1975 al 1981 e a 290 fibre litro annue dal 1981 al 1984. L’esposizione cumulativa totale, si legge, è stata “di 30,50 ff/cc anni, pari a 30.500 fibre litro anni, riferita ai valori fissati dalla Conferenza internazionale di Helsinki dell’anno 1997 ed ai relativi protocolli, quindi superiore alla quota di esposizione complessiva di 25.000 fibre litro anni fissata dal Consesso internazionale suddetto”. Secondo il giudice, quindi, l’operaio “ha comunque contratto una patologia oncologica professionale, da ritenere pertanto causalmente amianto correlata, sia pure nel senso parziale suddetto, diagnosticata come un mesotelioma pleurico polmonare”, che poi lo ha ucciso.

Processo Eternit

“Amianto e mesotelioma: tutti innocenti?”

A Roma un convegno che controbatte alle tesi difensive

Venerdì mattina, a partire dalle ore 10, la Sala Capitolare del convento di Santa Maria sopra Minerva a Roma ospiterà il convegno “Amianto e mesotelioma: tutti innocenti?”. Il simposio si occuperà, come recita il sottotitolo, di “aspetti biologici ed epidemiologici dell’esposizione ad amianto e conseguenze giuridiche”. Il convegno è organizzato su iniziativa della senatrice Tatjana Rojc (Pd).

Anticipa il comitato organizzatore: «Nonostante la certezza dell’esposizione di lavoratori e cittadini, i dirigenti delle grandi aziende vengono assolti in cassazione dalle accuse per migliaia di decessi causati dall’amianto. Discutiamo le motivazioni d’inversione di una giurisprudenza che sembrava consolidata esponendo le evidenze biologiche ed epidemiologiche delle malattie asbesto-correlate la cui confutazione in tribunale porta alle assoluzioni: la teoria multistadio per lo sviluppo della cancerogenesi, il ruolo del rapporto dose/incidenza fra esposizione all’amianto e insorgenza delle malattie, il significato del concetto di induzione dei tumori asbesto correlati, l’estensione delle leggi dell’epidemiologia al caso singolo». Scopo del convegno è «verificare se davvero permangono opinioni scientifiche divergenti su questi argomenti e quale peso esse abbiano nei tribunali dove sono proposte come controverse e nel giudizio prevalente della comunità scientifica dove, in assenza di conflitto di interesse, sono ampiamente condivise». Si tratta, dunque, di un incontro direttamente finalizzato a controbattere alle posizioni difensive di Eternit.

Tra i relatori della sessione pomeridiana figurano anche la presidente di Afeva Giuliana Busto, l’avvocato Laura Mara (legale di Medicina Democratica e patrono di parte civile nel processo Eternit-bis a Novara), Edoardo Bai (medico consulente di parte civile all’Eternit-bis), Alessia Angelini (ingegnere chimico consulente della Procura nel processo Eternit-bis a Novara).

Risarcimento

Respiravano amianto in fabbrica Ora la pensione è più pesante

Il “risarcimento” a tre ex operai di quelle che erano le officine ferroviarie di Costa Masnaga

Nella foto una bonifica C’è poi il caso della vecchia fabbrica lariana di lampadine Leuci, dove erano 800 i lavoratori soprattutto donne
Nella foto una bonifica C’è poi il caso della vecchia fabbrica lariana di lampadine Leuci, dove erano 800 i lavoratori soprattutto donne

Nella foto una bonifica C’è poi il caso della vecchia fabbrica lariana di lampadine Leuci, dove erano 800 i lavoratori soprattutto donne

Hanno lavorato per anni a loro insaputa in un ambiente infestato di amianto. Per questo tre ex operai di quelle che erano le officine ferroviarie di Costa Masnaga riceveranno una pensione più alta. Lo prevede la legge, in base alla quale ai lavoratori che sono stati esposti per all’amianto spettano alcuni benefici pensionistici. Poiché sono a riposo ormai da tempo la loro pensione dovrà essere adesso ricalcolata e rivalutata.

Per ottenere il riconoscimento di ciò che è un loro diritto le tre ex tute blu hanno dovuto però fare causa all’Inps. Ad assisterli durante la causa è stato l’avvocato Roberto Molteni, che aveva già vinto una prima vertenza nel 2019. “La battaglia legale è cominciata nel 2010-2011 – ha spiegato l’avvocato –. I primi ricorso in tribunale a Lecco e in Corte d’Appello a Milano sono stati persi, fino a che nel 2019 abbiamo ottenuto un’importante sentenza in Cassazione”. È stato un verdetto che ha fatto e sta facendo scuola: “Altri lavoratori tra cui i tre che hanno vinto l’ultima causa hanno potuto beneficiare di questo beneficio contributivo. Viene riconosciuto che avendo loro lavorato per oltre 10 anni in un ambiente esposto all’amianto con un’esposizione oltre la soglia di 100 fibre per litro d’aria e quindi in un ambiente pericoloso, hanno diritto al riconoscimento di una maggiore contribuzione”. Chi ad esempio è andato in pensione con 35 anni di anzianità di servizio è come se fosse andato in pensione con 40. Ad emettere il pronunciamento è stata la giudice del tribunale del lavoro Federica Trovò. L’avvocato Roberto Molteni è anche membro del Comitato legale del Gam di Lecco, il Gruppo aiuto mesoteliama, fondato da Cinzia Manzoni, con cui oggi è a Roma per un convegno sul tema al Senato. Insieme stanno inoltre portando avanti un’altra causa analoga anche per i lavoratori dell’ex Leuci, la vecchia fabbrica di lampadine di Lecco, dove 800 lavoratori, soprattutto donne, hanno lavorato in uno stabilimento saturo di amianto senza alcuna protezione. Daniele De Salvo

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2 Maggio 2022

Mercato San Severino, si ribalta con il trattore: muore a 25 anni

Il mezzo ha schiaciato il giovane. Inutile ogni tentativo di soccorso

Mercato San Severino (Salerno), 2 maggio 2022 – Un altro morto, proprio il giorno dopo il Primo Maggio e la denuncia dei sindacati di come sia tragicamente facile perdere la vita sul lavoro. Un ragazzo  di 25 anni è morto in un incidente mentre era alla guida di un trattore in un terreno. E’  accaduto nella tarda mattinata di oggi ad Acquarola, località montana del comune di Mercato San Severino, nel Salernitano.

Secondo una prima ricostruzione fatta dai carabinieri, il mezzo agricolo si è ribaltato schiacciando il 25enne. Per l’uomo, originario di Mercato San Severino, non c’e’ stato nulla da fare, nonostante l’intervento celere dei sanitari del 118. A lanciare l’allarme è stato un familiare della vittima. Sul posto, anche i militari dell’Arma della Compagnia di Mercato San Severino che hanno avviato gli accertamenti del caso. 

Proprio ieri, in occasione del Primo Maggio Festa del Lavoro,  era stato ricordato come nel 2021 ci sono stati  1.221 morti sul lavoro e che in questi primi mesi c’è stato un aumento del 47% degli incidenti sul lavoro rispetto al 2021, con quasi 300 vittime

Roma, operaio morto alla Farnesina: morì sul colpo. Un funzionario sentì gridare “aiuto”

Eseguita oggi l’autopsia sul corpo di Fabio Palotti: “Fatali le gravissime lesioni da schiacciamento”. Esclusa l’agonia 

Roma, 2 maggio 2022 – Fabio Palotti è morto sul colpo, le gravissime lesioni da schiacciamento riportate dal’operaio escludono l’agonia. Questi i primi risultati dell’autopsia svolta oggi 2 maggio sul corpo dell’uomo di 39 anni morto mentre stava facendo manutenzioni a un ascensore alla Farnesina. Dall’esame autoptico, eseguito, all’istituto di medicina legale del Policlinico Gemelli, sarebbe emerso un quadro devastante di lesioni, tali da non lasciare scampo all’ascensorista  e da escludere un’agonia.

Per quanto riguarda l’orario esatto della morte serviranno ulteriori esami anche se al momento non si esclude che il decesso sia arrivato tra le ore 18.25 e le 19 del 27 aprile. Probabilmente le grida di aiuto sentite da un funzionario del ministero si riferiscono al momento in cui Palotti ha intuito che la cabina si stava sganciando. 

Al momento non è escluso che l’operaio, ritrovato senza vita giovedì mattina da un collega, possa essere morto mercoledì pomeriggio quando il suo telefono ha smesso di funzionare. Sempre in quelle ore di mercoledì un funzionario della Farnesina sentì qualcuno urlare “aiuto” e si rivolse ai carabinieri del presidio interno al ministero degli Esteri che effettuarono un sopralluogo senza però  trovare nessuno. 

L’indagine della Procura

L’indagine della Procura di Roma intanto prosegue, al momento il fascicolo è contro ignoti e l’ipotesi di reato è omicidio colposo. Gli investigatori hanno ascoltato i colleghi di Palotti e il titolare dell’azienda per quale lavorava come ascensorista. Chi indaga ha accertato che il 39enne quel pomeriggio era al lavoro nel vano da solo così come prevede il protocollo per gli interventi di ordinaria amministrazione. Aveva preso servizio alle 14,30 e il suo turno terminava alle 22. Tra gli atti dell’indagine c’è anche una nota di servizio in base alla quale tra le 18,25 e le 19 un funzionario del ministero ha sentito una voce maschile gridare “aiuto”.

Le porte degli ascensori risultavano chiuse anche se su questo punto risposte potrebbero arrivare dall’analisi delle telecamere di sicurezza presenti sui pianerottoli. Un elemento certo è che i colleghi sapevano che Palotti era di turno e doveva effettuare l’intervento di manutenzione. Come riferito dal legale dei familiari l’allarme della compagna non è scattato subito perché quel giorno avevano avuto un piccolo diverbio e quindi poteva starci che quella sera volesse stare da solo e passare la notte dai genitori.

Giovedì mattina la moglie ha chiamato i genitori per sapere se avessero notizie del marito. I genitori erano stati contattati pochi istanti prima da un collega del figlio allarmato della presenza dell’auto nel parcheggio della Farnesina. Dopo pochi minuti hanno ricevuto la telefonata in cui gli è stato detto che il figlio era morto. Per accertare, invece, la dinamica di quanto avvenuto il pm Antonino Di Maio ha disposto una consulenza sulla cabina-ascensore: l’obiettivo è capire se si è verificata una anomalia nel funzionamento della modalità “manutenzione” o l’operaio si sia dimenticato di inserirla prima di iniziare il lavoro. 

Sentenze amianto F.S. 2022

Sono state condannate quattro persone nel processo sullo smaltimento dell’amianto da parte di Isochimica per conto di Ferrovie dello Stato

Venerdì, con una sentenza di primo grado, il tribunale di Avellino ha condannato quattro persone a 10 anni di carcere al termine del processo che riguardava lo smaltimento dell’amianto di carrozze ferroviarie da parte di Isochimica per conto di Ferrovie dello Stato negli anni Ottanta. Sono stati condannati Vincenzo Izzo e Pasquale De Luca, rispettivamente responsabile della sicurezza di Isochimica e il suo vice, e Aldo Serio e Giovanni Notarangelo, funzionari di Ferrovie dello Stato, per disastro doloso, omicidio colposo, lesioni personali e rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

Il tribunale ha anche disposto il pagamento di un risarcimento di 50mila euro per ognuna delle famiglie dei 33 operai che negli anni erano morti per patologie correlate all’esposizione all’amianto. Sono invece stati assolti gli altri 22 imputati, tra cui c’erano l’ex sindaco di Avellino, Giuseppe Galasso, e i membri della giunta comunale del tempo.

Negli anni lo smaltimento dell’amianto da parte di Isochimica era stato oggetto di numerose denunce, la prima da parte di WWF, nel 1986. Il sindaco di Avellino, Gianluca Festa, ha detto che i capannoni di Isochimica, ormai chiusa da tempo, verranno usati per ospitare fiere e mercati.

l giudice del Tribunale di Roma, Francesca Vincenzi, ha condannato Ferrovie dello Stato al risarcimento di 300 mila euro alla famiglia di un macchinista di Palermo morto nel 2015 di mesotelioma per esposizione alla fibra killer. L’uomo aveva lavorato nelle FS per 30 anni, dal 1967 al 1996, come macchinista, sempre esposto all’amianto senza dispositivi di protezione. Prima presso il deposito locomotive di Catania, poi in quello di Palermo e Caltanissetta. Per qualche mese fu addetto alla conduzione di treni in Sicilia. In ultimo, infine, nel deposito locomotive di San Lorenzo a Roma.

ANSA) – FOGGIA, 22 FEB – Rete ferroviaria italiana è stata condannata dal Tribunale di Roma a risarcire di 200.000 euro la vedova e i due figli di un operaio di Foggia morto all’età di 69 anni di mesotelioma da esposizione ad amianto.

Il ricorso era stato presentato dagli avvocati Daniela Cataldo ed Ezio Bonanni, quest’ultimo presidente dell’ osservatorio nazionale Amianto.


    Stando alla ricostruzione dell’accaduto fornita proprio dall’associazione, dal 1969 la vittima ha lavorato come aggiustatore meccanico nelle officine grandi riparazioni di Foggia di Rfi occupandosi della manutenzione dei rotabili ferroviari, motori, tubazioni, cavi elettrici. Dopo 14 mesi, è specificato, gli è stato diagnosticato un mesotelioma da esposizione ad amianto. E’ morto a 69 anni lasciando la moglie di 63 anni, e i due figli di 37 e 33 anni. La società, a quanto viene riferito dall’osservatorio, aveva contestato il ricorso affermando che “solo a partire dalla metà degli anni ’70 vi è stata la presa di coscienza circa la pericolosità della esposizione a fibre in amianto”. Il giudice Antonella Casoli ha richiamato precedenti sentenze ha ribadito la responsabilità per aver esposto l’operaio “a elevatissime concentrazioni di polveri e fibre di amianto, contenute nei materiali manipolati e comunque aerodisperse nell’ambiente di lavoro”. Secondo il giudice Rfi avrebbe “omesso di mettere a disposizione dei lavoratori dispositivi di protezione individuale, quali mascherine e tute da lavoro e di informare il lavoratore sui rischi connessi all’amianto”. (ANSA).

Il Tribunale di Vicenza ha condannato R.F.I. – Rete Ferroviaria Italiana S.p.a. a un ingente risarcimento dei danni conseguenti il mesotelioma pleurico causato da esposizione a fibre di amianto e il conseguente decesso di un dipendente di soli 57 anni. A dare la notizia un comunicato della Cgil Padova. I familiari della vittima sono stati assistiti dal Inca Cgil, dalla Filt Cgil e dagli Avvocati Giancarlo Moro e Camilla Cenci. 

Il Giudice del Lavoro, Gaetano Campo, ha liquidato in favore della vedova e dei tre figli, uno dei quali ancora minorenne all’epoca del decesso del padre la complessiva somma di € 1.004.000,00 per i danni subiti a causa della malattia e del decesso del loro congiunto.

Il lavoratore, assunto nel 1984 e ancora in forze all’epoca della diagnosi, aveva lavorato presso le Officine Grandi Riparazioni di Vicenza e le Officine Manutenzione Veicoli di Padova come meccanico manutentore, ed era stato impiegato anche nelle operazioni di bonifica dell’amianto delle carrozze ferroviarie.

L’esposizione dei dipendenti delle ferrovie ad amianto è dato notorio, documentato dell’elevata percentuale di mesoteliomi sviluppati tra il personale addetto alla manutenzione, ma anche al personale di macchina.

In attesa delle motivazioni della sentenza, la rilevante somma riconosciuta trova giustificazione nella giovane età della vittima e dei familiari superstiti, nonché nell’accertamento della responsabilità di Ferrovie nella causazione della malattia, per non aver concretamente e tempestivamente adottato le misure idonee a salvaguardare la salute dei lavoratori, omettendo di individuare materiali diversi in sostituzione all’amianto e di fornire ai dipendenti adeguati dispositivi di protezione atti a eliminare o comunque ridurre significativamente l’esposizione a polveri di amianto.

Morti da amianto all’Eternit di Bagnoli, una sola condanna per omicidio colposo. I parenti delle vittime: “Vergogna”6-04-22

Morti da amianto allo stabilimento Eternit di Bagnoli, la Corte di Assise di Napoli (seconda sezione, presidente Concetta Cristiano) esclude l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale e condanna l’imprenditore svizzero Stephan Ernest Schmidheiny a 3 anni e 6 mesi per un unico episodio di omicidio colposo, quello di Antonio Balestrieri, uno degli operai deceduto a causa di prolungata esposizione all’amianto.

Per altri sei casi al centro del processo, i giudici hanno sancito l’avvenuta prescrizione mentre per un episodio hanno assolto l’imputato “perché il fatto non sussiste”. Lo scorso 2 marzo i sostituti procuratori di Napoli Anna Frasca e Giuliana Giuliano avevano chiesto per il 74enne Schmidheiny una condanna a 23 anni e 11 mesi di reclusione.

Alla lettura del verdetto è esplosa la rabbia dei familiari delle vittime: «Vergogna, vergogna»: hanno gridato all’esterno dell’aula 116 del nuovo Palazzo di Giustizia. «Una sentenza che lascia l’amaro in bocca soprattutto perché non siamo sicuri che la realtà processuale coincida con la realtà storica, dato il lungo tempo trascorso. Confidiamo nel giudizio di appello nella speranza che si giunga proprio a una verità processuale che dia ragione della realtà storica». Così l’avvocato Elena Bruno, legale dell’associazione «Mai più Amianto» sull’esito del processo napoletano. L’avvocato Flora Abate che ha rappresentato nel processo l’associazione Osservatorio nazionale amianto, parte civile al processo commenta: “Siamo molto delusi, solleciteremo la Procura generale a impugnare questa sentenza”.

F.S. e Amianto marzo 2022

Il giudice del Tribunale di Roma, Francesca Vincenzi, ha condannato Ferrovie dello Stato al risarcimento di 300 mila euro alla famiglia di un macchinista di Palermo morto nel 2015 di mesotelioma per esposizione alla fibra killer. L’uomo aveva lavorato nelle FS per 30 anni, dal 1967 al 1996, come macchinista, sempre esposto all’amianto senza dispositivi di protezione. Prima presso il deposito locomotive di Catania, poi in quello di Palermo e Caltanissetta. Per qualche mese fu addetto alla conduzione di treni in Sicilia. In ultimo, infine, nel deposito locomotive di San Lorenzo a Roma.

Nella sentenza il magistrato richiama l’onere, per il datore di lavoro, di provare a sua discolpa, “di aver adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto”. Il riferimento è alla Legge 257/1992 che mette al bando la fibra killer.  Spiega anche che la presenza di amianto nell’ambiente di lavoro dell’uomo emerge dai documenti presentati nel ricorso. La stessa Rfi l’ha confermata nelle sue memorie difensive. Il giudice sottolinea anche che non si tratta di “una piccola impresa che galleggia nel turbinio di leggi da cui trarre indicazioni comportamentali, ma di una grande realtà aziendale, ‘parallela’, per i servizi sanitari, allo Stato”. Dotata anche “di un organismo ad hoc, assistito da competenze scientifiche, deputate in primo luogo ad assicurare e garantire la salute dei ferrovieri” – e sottolinea che l’organizzazione sanitaria “si è dimostrata inadeguata e/o difettosa … nel rivelare e segnalare tempestivamente al vertice gestionale il serio e non ipotetico pericolo incombente costituito dalle fibre di amianto diffuse nel materiale rotabile, suggerendo rimedi che la comunità scientifica internazionale aveva ormai allo studio”.

Cassazione Civile, Sez. 3, 21 marzo 2022, n. 8999 – Domanda risarcitoria in relazione alla morte del coniuge caduto all’indietro da un trabattello mentre era intento nello smontaggio/montaggio delle condotte dell’aria condizionata

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Cassazione Civile, Sez. 3, 21 marzo 2022, n. 8999 – Domanda risarcitoria in relazione alla morte del coniuge caduto all’indietro da un trabattello mentre era intento nello smontaggio/montaggio delle condotte dell’aria condizionata



Presidente: FRASCA RAFFAELE GAETANO ANTONIO Relatore: GUIZZI STEFANO GIAIME
Data pubblicazione: 21/03/2022
 

Fatto
 



1. E.V. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 2830/18, del 4 dicembre 2018, della Corte di Appello di Firenze, che – nel decidere sul gravame dalla stessa esperito, in via di principalità, avverso la sentenza n. 1277/16, dell’11 giugno 2016, del Tribunale di Lucca, che ne aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta in relazione al decesso del coniuge G.G. – ha dichiarato il mezzo inammissibile, ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ.
2. In punto di fatto, la ricorrente riferisce che in data 24 agosto 2002 suo marito G.G., dipendente della società Same S.r.l., rimaneva vittima, perdendo la vita, di un infortunio sul lavoro presso il cantiere della società Kedrion S.p.a., in località Bolognana-Gallicano. Riferisce, altresì, che la vittima lavorava alle dipendenze della Same, in virtù di un contratto di collaborazione occasionale, trovandosi presso il cantiere della società committente a seguito di una catena di contratti di appalto e subappalto, che vedeva coinvolte, oltre alla società datrice di lavoro, pure le società Inso S.p.a. e F.C. S.r.l., nelle rispettive qualità di appaltatrice e subappaltatrice dell’opera. Deduce, inoltre, la E.V. che l’evento mortale si verificava a seguito della caduta del G.G. da un trabattello, posizionato ad un’altezza di circa quattro metri dal suolo, ove l’uomo stava procedendo allo smontaggio di condotte di aria condizionata.
Svoltosi processo penale innanzi al Tribunale di Lucca, per il reato di omicidio colposo contestato a carico di R.C., quale datore di lavoro e responsabile della predetta cooperativa Same, lo stesso si concludeva con la condanna dell’imputato alla pena della reclusione di otto mesi, nonché al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separato giudizio, con l’assegnazione di una provvisionale in favore della sola  E.V.. Il Tribunale penale rigettava, invece, le domande proposte nei confronti dei responsabili civili.
In forza dell’accertamento operato dal giudice penale, la E.V. – con citazione del 13 maggio 2010 – adiva il Tribunale di Lucca in sede civile, affinché fosse riconosciuta la responsabilità nella morte del proprio congiunto anche a carico della società F.C., della società in Inso, quale capogruppo mandataria dell’associazione temporanea d’impresa Inso-Steril, nonché della Kedrion, con condanna di tutte le convenute a risarcire, eventualmente anche in via solidale, il danno cagionato all’attrice.
Nel giudizio intervenivano, su chiamata di parte, anche le società Generali S.p.A. e Milano Assicurazioni S.p.a. (poi divenuta Unipolsai Assicurazioni), assicuratrici, rispettivamente, di Inso e F.C..
Il giudizio di primo grado si concludeva con il rigetto della domanda della E.V. (non essendosi ravvisata responsabilità in capo alle società convenute), il cui gravame – come detto – era dichiarato inammissibile dal giudice di appello.

3. Avverso la decisione della Corte fiorentina ricorre per cassazione la E.V., sulla base di due motivi.

3.1. Il primo motivo denunzia “violazione dell’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. in relazione all’erronea declaratoria di inammissibilità dell’appello pronunciata ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ.”.
La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma – nel qualificare come inammissibile, per difetto di specificità, il gravame esperito dalla E.V. – che l’allora appellante ebbe a svolgere “una esposizione generica in diritto tradottasi in una mera ricognizione normativa, senza menzionare e confrontarsi con nessuna parte della motivazione della sentenza”.
Assume, per contro, la ricorrente che il proprio atto di gravame, già nelle prime battute, specificava e individuava i motivi di doglianza rivolti nei confronti della sentenza, nonché le parti della pronuncia oggetto di gravame. In particolare, per quanto concerne la posizione della società Inso, l’allora appellante censurava la sentenza di primo grado per aver ritenuto “non esistenti i profili di responsabilità nonostante siano esplicite le clausole contrattuali attributive della responsabilità nel settore della sicurezza sul lavoro, assumendo semplicemente che i nominati responsabili della sicurezza «erano assiduamente presenti sul luogo con funzione di vigilanza»”. Con riferimento, poi, alla posizione della società F.C., l’appellante aveva censurato la pronuncia del Tribunale lucchese per aver ritenuto che “l’astratta determinazione pattizia vale a dimostrare l’ingerenza del subappaltante e, quindi, l’assenza di autonomia del subappaltatore”. L’appellante, invece, evidenziava che la presenza assidua degli incaricati alla sicurezza di Inso non valeva in astratto, così come ritenuto dal Tribunale, ad escludere la responsabilità della società appaltatrice, che avrebbe dovuto, in virtù di precisi obblighi contrattuali, sorvegliare sul rispetto della normativa antinfortunistica da parte dei subappaltatori. Veniva precisato poi, sempre nell’atto di appello, che il legislatore impone degli obblighi specifici in materia di sicurezza, in applicazione degli artt. 1176 e 2087 cod. civ., sia al datore di lavoro che al committente e che tra questi rientrano “non solo la più elementare attuazione delle misure di sicurezza, bensì anche l’esigere l’osservanza delle norme e soprattutto l’uso dei mezzi di protezione, a nulla servendo l’adempimento della mera distribuzione del «foglio di istruzione» della ditta costruttrice e il controllo sul parziale innalzamento dei mezzi utilizzati, unica attività di vigilanza posta in essere dalle società coinvolte nel caso di specie, come risulta dagli interrogatori svolti in sede di processo penale richiamati anche in sentenza”.
L’atto di appello censurava, inoltre, quanto affermato dal Tribunale di Lucca circa l’assenza di responsabilità del committente Kendrion, essendosi indicata sia normativa che giurisprudenza dalla quale emerge, a chiare lettere, la responsabilità dell’imprenditore che non abbia provveduto, avendone la possibilità, all’adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento dei lavori. In buona sostanza, nell’atto di appello si evidenziava come il Tribunale non avesse valutato adeguatamente la posizione del committente, il quale, in presenza di macroscopiche violazioni della normativa antinfortunistica, doveva immediatamente intervenire per ovviare alle omissioni degli appaltatori in punto di sicurezza sul luogo di lavoro e così evitare gli infortuni. In particolare, si chiariva come il trabattello impiegato al momento del sinistro presentava la non regolarità dell’altezza dei parapetti, risultando, inoltre, non montato regolarmente, mancando della campata terminale e delle tavole fermapiede. Si richiamava, altresì, la deposizione di un teste, secondo cui il G.G. stava, addirittura, lavorando su una struttura mobile, essendo la stessa priva della staffa stabilizzatrice e del livellatore a vite, evidenziandosi, infine, come al momento della caduta non risultassero nemmeno presenti, sul trabattello, le cinture di sicurezza.
Sottolinea, conclusivamente, l’odierna ricorrente che l’appello è un mezzo di gravame volto ottenere non il controllo della decisione del giudice di primo grado, bensì una nuova pronuncia sul diritto fatto valere con la domanda originaria, di talché, proprio in ragione di questo suo fine ultimo, deve essere valutato il requisito della specificità dei motivi.

3.2. Il secondo motivo denunzia “violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. in relazione all’art. 92, comma 2, cod. proc. civ., per come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 77/2018”.
La ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, nel liquidare le spese di lite, ha assunto quale unico parametro quello della soccombenza, senza tener conto che, in virtù della citata sentenza della Corte costituzionale, è stato dichiarato incostituzionale l’art. 92, comma 2, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, anche qualora sussistano altre analoghe “gravi ed eccezionali ragioni” (oltre quelle indicate dalla norma stessa), da identificarsi, nella specie, in ragioni di equità.

4. Hanno resistito, con distinti controricorsi, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità o in subordine il rigetto, le società F.C. S.r.l., Kendrion S.p.a. e Generali S.p.a.

5. Sono rimaste solo intimate le società Inso-Sistemi per le infrastrutture sociali S.p.a. e Unipolsai Assicurazioni S.p.a.

6. La ricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.
 

Diritto


7. Il ricorso va accolto.

7.1. Il primo motivo è, infatti, fondato.

7.1.1. Al riguardo, deve premettersi che il presente motivo di ricorso – con cui si censura la decisione del giudice di appello di ritenere privi di specificità, ex art. 342 cod. civ., i motivi di gravame della E.V. – soddisfa la condizione di ammissibilità prescritta dall’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ.
Difatti, chi censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di chiarire, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, non potendo limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma dovendo riportarne il contenuto – come avvenuto, appunto, nel caso che qui occupa – ancorché solo nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. Sez. 5, ord. 29 settembre 2017, n. 22880, Rv. 645637- 01; in senso analogo, di recente, Cass. Sez. 1, ord. 6 settembre 2021, n. 24048, Rv. 662388-01).

7.1.2. Ciò premesso, il presente motivo, oltre che ammissibile, è pure fondato.

7.1.2.1. Al riguardo, infatti, occorre muovere dalla premessa che l’art. 342 cod. proc. civ., come pure il successivo art. 434 dello stesso codice di rito, vanno “interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice”, fermo restando, però, come a tal fine non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di «revisio prioris instantiae» del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 30 maggio 2018, n 13535, Rv. 648722-01). Invero, “il richiamo, contenuto nei citati artt. 342 e 434, alla motivazione dell’atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio”, giacché quanto “viene richiesto – in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata – è che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 27199 del 2017, cit.).
D’altra parte, poi, la “specificità dei motivi di appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 24 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01), nel senso che la prima va sempre “commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice” (Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2016, n. 15790, Rv. 641584-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 26 luglio 2021, n. 21401, Rv. 662214-01), sicché l’appellante “che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare «ex novo>> le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sé l’inammissibilità dell’appello”, e ciò in quanto, sostenere il contrario, “significherebbe pretendere dall’appellante di introdurre sempre e comunque in appello un «quid navi» rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che – a tacer d’altro – non sarebbe coerente col divieto di <<nova» prescritto dall’art. 345 cod. proc. civ.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 8 febbraio 2018, n. 3115, Rv. 648034-01; nello stesso, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 4 novembre 2020, n. 24464, Rv. 659759-01).
Più in particolare, “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 cod. proc. civ., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. Sez. 2, ord. 28 ottobre 2020, n. 23781, Rv. 659392-01; Cass. Sez. 1, sent. 12 febbraio 2016, n. 2814, Rv. 638551 – 01).
Inoltre, deve rilevarsi – per concludere sul punto – che allorché il ricorrente censuri la sentenza con cui il giudice di merito ha affermato l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi, oggetto del giudizio di legittimità “non è la sola argomentazione della decisione impugnata, bensì sempre e direttamente l’invalidità denunciata e la decisione che ne dipenda, anche quando se ne censuri la non congruità della motivazione; di talché in tali casi spetta al giudice di legittimità accertare la sussistenza del denunciato vizio attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto” (Cass. Sez. 5, sent. 1° dicembre 2020, n. 27368, Rv. 659696-01).

7.1.2.2. Orbene, alla luce delle considerazioni che precedono deve ritenersi che, nel caso in esame, le censure formulate dalla E.V., avverso la sentenza del Tribunale lucchese, non difettassero affatto del requisito della specificità.

7.1. 2.2.1. La pronuncia resa dal primo giudice – della quale questa Corte è abilitata a prendere visione, essendo stato evocato con il ricorso un “error in procedendo”, rispetto al quale essa è giudice del “fatto processuale” (cfr., tra le altre, Cass. Sez. Lav., sent. 5 agosto 2019, n. 20924, Rv. 654799-01) – perveniva, per vero, al rigetto della domanda risarcitoria sulla base del seguente iter argomentativo.
Essa, innanzitutto, riconosceva non essere contestata la dinamica del sinistro, ovvero che il G.G. “è caduto all’indietro da un trabattello mentre era intento nello smontaggio/montaggio delle condotte dell’aria condizionata”, soggiungendo che “il piano di lavoro si trovava a 3,20 metri di altezza” e che “l’impalcatura non era dotata del parapetto della misura prevista”, risultando, inoltre, “sprovvisto della campata terminale di protezione”. In altri termini, il Tribunale accertava “deficienze del sistema di prevenzione degli infortuni sul lavoro”.
Su tali basi, tuttavia, pur riconosciuta – anche sulla base delle pattuizioni contrattuali richiamate dall’attrice, che prevedevano l’assunzione di specifici obblighi, a carico della società committente (e di quelle appaltatrice e subappaltrice), in relazione alla sicurezza sul lavoro – “l’astratta responsabilità di tutte le imprese che hanno partecipato alla catena degli appalti sub/appalti nel caso di specie, ossia la Kendrion s.p.a. quale committente originario e titolare del cantiere, la Inso s.p.a. e la F.C. s.r.l., quali appaltatori a loro volta appaltanti”, il giudice di prime cure rigettava la domanda risarcitoria. Esito al quale perveniva sul rilievo che Kendrion avesse fornito la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l’infortunio, avendo “provveduto alla redazione dei piani di sicurezza e coordinamento”, nonché “a presidiare con assiduità il cantiere”; con specifico riferimento, poi, al trabattello – del quale pure era stata accertata la non rispondenza alla normativa antinfortunistica – l’esonero da responsabilità è stato fondato sulla seguente, duplice, constatazione.
Per un verso, infatti, si è sottolineato come trabattelli sarebbero sempre stati montati correttamente, in quanto i dipendenti di Same “avevano anche il foglio di istruzione” (né essendovi state specifiche segnalazioni circa il loro non corretto montaggio); per altro verso, poi, si è evidenziato che essi costituissero “strumento di lavoro proprio dell’opera da eseguirsi da parte della Same”. Quest’ultima circostanza, ovvero la disponibilità esclusiva dei trabattelli in capo alla società datrice di lavoro del G.G., ha condotto all’esclusione della responsabilità anche delle società Inso e F.C., quantunque gli stessi, benché “controllati quasi giornalmente”, ben “difficilmente rispondevano alla normativa di sicurezza perché gli operai, per questione di praticità, smontavano alcune parti”.

7.1.2.2.2. Orbene, a fronte di tale motivazione, l’appellante ha, innanzitutto, censurato “la supposizione” secondo cui, “solo allorquando vi sia l’esplicita omissione dei controlli” – relativi alla sicurezza del luogo di lavoro – sussisterebbe “responsabilità” di soggetti diversi dal datore di lavoro (pur impegnatisi contrattualmente in tal senso), sicché, per converso, la mera “assidua presenza” dei preposti a tali controlli starebbe a denotare “una vigilanza diligente e regolare”. Già tale affermazione, che si trova – pagina 3 dell’atto di appello – quale “incipit” dei motivi di gravame, vale a chiarire la “cornice” entro la quale si collocava l’iniziativa impugnatoria della E.V..
Essa investiva, infatti, l’affermazione secondo cui, ai fini dell’esonero della responsabilità della società committente (e delle altre convolte nella catena degli appalti) – responsabilità pur ritenuta dal Tribunale “astrattamente configurabile” – potesse bastare il rilievo che i loro addetti alla sicurezza avessero provveduto “a presidiare con assiduità il cantiere”, eseguendo verifiche che investivano gli stessi trabattelli, “controllati quasi giornalmente”. A tali affermazioni, infatti, l’appellante – nell’immediato prosieguo del proprio atto di gravame – contrapponeva il rilievo secondo cui, “in caso di ispezione e controllo, qualora si accerti una violazione, più o meno grave, delle norme sulla prevenzione e sicurezza sul lavoro, i responsabili possono e devono sospendere i lavori”; rilievo, chiaramente, riferito alla constatazione (pure operata dal primo giudice) che trabattelli “difficilmente rispondevano alla normativa di sicurezza perché gli operai, per questione di praticità, smontavano alcune parti”.
Difatti, ulteriormente sviluppando le ragioni poste a base del proposto appello, la E.V. evidenziava, proprio con riferimento ai controlli eseguiti sui trabattelli, come l’art. 2087 cod. civ. – applicabile non al solo datore di lavoro, secondo quanto, del resto, già riconosciuto dal Tribunale di Lucca – esiga “l’osservanza delle norme e soprattutto dei mezzi di protezione”, sicché, per ritenere adempiuti gli obblighi da esso imposti, non poteva ritenersi sufficiente la “mera distribuzione del <<foglio di istruzione>> della ditta costruttrice e il controllo sul parziale innalzamento dei mezzi utilizzati”, ovvero “le uniche attività di vigilanza poste in essere dalle società coinvolte nel caso di specie”.
Non a caso, infatti, l’appellante si richiamava, subito dopo, alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, il compito del datore di lavoro – e comunque dei soggetti ad esso equiparati, quanto al rispetto della normativa relativa alla sicurezza del luogo di lavoro (era citata, sul punto, Cass. Sez. 4 Pen., sent. dep. 5 gennaio 2016, n. 16) – “non si esaurisce nella formale predisposizione del piano di sicurezza, nella consegna ai lavoratori dei mezzi di prevenzione e nell’attuazione statica delle misure necessarie, essendo tenuto ad accertarsi che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite”, nonché ad “intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti, attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d’uso pericolose da parte dei dipendenti, quali la rimozione delle cautele antinfortunistiche o il mancato impiego degli strumenti di prevenzione messi a disposizione” (veniva richiamata Cass. Sez. 4 Pen., sent. dep. 4 luglio 2014, n. 29276).
Ad ulteriore corredo delle censure formulate – e con chiaro riferimento alla circostanza dello smontaggio dei trabattelli, e, soprattutto, al fatto che essi “difficilmente rispondevano alla normativa di sicurezza” (come constatato in occasione dell’incidente che costò la vita al G.G., visto che la “l’impalcatura non era dotata del parapetto della misura prevista”, risultando, inoltre, sprovvista “della campata terminale di protezione”) – l’appellante si è richiamata ad un principio più volte affermato da questa Corte. Ovvero, quello secondo cui, “le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso”, donde la responsabilità del datore di lavoro – e dei soggetti ad esso equiparati – “sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente” (veniva richiamata, in particolare, Cass. Sez. Lav., sent. 4 dicembre 2012, n. 27127, Rv. 629176-01).
Tanto premesso, questa Corte ritiene – secondo il già descritto “modus operandi”, che impone al giudice di legittimità di verificare, più ancora che la correttezza della motivazione con cui il giudice di appello abbia escluso la specificità del motivo di gravame, direttamente la conformità dello stesso alla previsione di cui all’art. 342 cod. proc. civ. – che le argomentazioni, in fatto e in diritto, svolte dalla E.V. nel proprio atto di impugnazione consentissero di cogliere la critica rivolta alla decisione del Tribunale di Lucca, specie ove si consideri (come già rilevato) che essa può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini, come avvenuto nella specie, una critica adeguata e specifica della decisione impugnata.

7.1.3. In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto (con assorbimento del secondo, relativo alle spese di lite, dal momento che il giudice del rinvio dovrà provvedere ad una loro rinnovata, totale, regolamentazione alla stregua dell’esito finale della lite; Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2016, n. 4887, Rv . 639295-01), disponendo, per l’effetto, la cassazione in relazione della sentenza impugnata e il rinvio alla stessa Corte di Appello di Firenze, sebbene in diversa sezione e composizione, per la decisione nel merito, oltre che sulle spese anche del presente giudizio.

 

P.Q.M.




La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo e cassa in relazione la sentenza impugnata,

28 Gennaio 2022

Amianto all’Isochimica di Avellino, quattro condanne a 10 anni ai vertici F.S.

Quattro condanne a dieci anni di reclusione e ventidue assoluzioni. È questo il verdetto di primo grado pronunciato dopo cinque ore di Camera di consiglio dai giudici del Tribunale di Avellino sull’Isochimica, la fabbrica del capoluogo irpino nella quale per quasi dieci anni, a partire dalle fine degli anni Settanta, venivano bonificate dall’amianto le carrozza ferroviarie su commesse delle Ferrovie dello Stato. Il collegio giudicante ha condannato a dieci anni di reclusione il responsabile della sicurezza di Isochimica, Vincenzo Izzo, e il suo vice, Pasquale De Luca; Aldo Serio e Giovanni Notarangelo, funzionari di Ferrovie dello Stato.
Disposta anche una provvisionale di 50mila euro per ognuna delle famiglie dei 33 ex operai deceduti per patologie correlate alla prolungata esposizione all’amianto.
La pena corrisponde alla richiesta fatta dalla pubblica accusa rappresentata dal sostituto procuratore di Avellino, Roberto Patscot, per i reati di disastro doloso, omicidio colposo, lesioni personali e rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Assolti per non aver commesso il fatto gli altri imputati che dovevano rispondere di concorso in disastro colposo per omissione di atti di ufficio. Tra questi due ex sindaci di Avellino, Giuseppe Galasso e Paolo Foti.
Il processo, durato quasi sei anni, si è svolto nell’aula bunker del carcere di Poggioreale di Napoli a causa della mancanza di spazi adeguati a disposizione del tribunale di Avellino.
«La condanna dei principali imputati, tra cui Ferrovie dello Stato che deve risarcire le parti civili e i lavoratori dell’attività di scoibentazione delle carrozze ferroviarie dall’amianto, senza la dovuta sicurezza e sistemi di tutela che hanno determinato danni umani e ambientali da malattie asbesto correlate e quindi morte tra i dipendenti. Il riconoscimento del danno procurato ai lavoratori è un dato storico e importante per il territorio e per la città Avellino». Così in una nota il segretario generale della Cgil Napoli e Campania, Nicola Ricci e il segretario generale della Cgil Avellino, Franco Fiordellisi commentano la sentenza. «La Cgil – ricordano Ricci e Fiordellisi – in questi procedimenti si costituisce parte civile. Il giudizio, con condanna, evidenzia lo scempio contro i lavoratori, le persone e l’ambiente. È dunque un momento importante e storico per tutti coloro che da anni combattono contro la sottovalutazione dell’importanza della prevenzione nei luoghi di lavoro e per l’esposizione all’amianto. Dopo quasi 40 anni di battaglie e di aggressioni al territorio, insieme ai lavoratori, alle famiglie dei lavoratori deceduti, alle associazioni, questa sentenza segna un punto importante».CONDIVIDI:

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